Economia e finanza globale: l’impennata

Enrico Ascari -

Il 2018, “l’anno che verrà”, parte in impennata. Con la chiara amplificazione dei trend che hanno caratterizzato il 2017.

Andamento sostenuto dell’economia globale, accelerazione delle borse, delle materie prime non agricole, dal petrolio all’oro, dollaro ormai in caduta libera, tassi d’interesse americani in rialzo sulle scadenze brevi e danzanti attorno a “resistenze” secolari nel comparto a lungo termine. Nel complesso gli ecosistemi paralleli, ma reciprocamente contaminanti del reale e della finanza sembrano avere attivato il classico circolo virtuoso, per la prima volta nell’ultimo decennio. Si torna a parlare di goldilocks economy, tormentone dei magnifici anni ’90. Attenti però: l’estrapolazione di alcune tendenze sui mercati finanziari, oggi considerate benigne, potrebbe portare alla inattesa fine dell’attuale ciclo espansivo. Il combinato disposto di un dollaro che dovesse passare dal calo alla caduta, di commodity al rialzo, di tassi in aumento e borse ancora più euforiche suonerebbe, infine, come campanello d’allarme per economia e mercati.

Economia globale: crescita vera, sincronizzata e multidimensionale.

Gli indicatori che stimano l’andamento “corrente” delle grandezze economiche (“nowcasting”) segnalano che l’economia globale mantiene forti tassi d’espansione all’inizio del 2018, con gli Stati Uniti al 3,6%, l’Eurozona al 3,5%, il Giappone al 2,3%, il Regno Unito all’1,6%, la Cina al 7,1%.

In Europa non si parla più di “ripresa” bensì di “continua, robusta e vieppiù autosostenuta espansione”. La BCE e altri istituti hanno rivisto le previsioni sulla crescita al rialzo, portandole al 2,4% per il 2017 e al 2,3% per quest’anno, il valore massimo dall’inizio del millennio. L’inflazione, prevista a 1,7%, dovrebbe posizionarsi appena sotto il target del 2% nel 2020, ma c’è fiducia che la crescita possa condurre prima al ritorno di pressioni sui prezzi da domanda e non da costi, visto che l’output gap, cioè la distanza del sistema economico dal suo potenziale di pieno impiego, appare sostanzialmente chiuso.

Negli Stati Uniti cresce la consapevolezza che la Fed potrebbe alzare quattro volte i tassi (invece delle tre previste), considerando non peregrina l’ipotesi che il tasso di disoccupazione possa scendere fino al 3,5% (che sarebbe il livello minimo dal 1969) e che i salari mostrino segnali di sostanziale ripresa.

In Cina è stato confermato che i dati di crescita economica nelle grandi regioni del Nord dipendenti dal carbone sono stati manipolati al rialzo nel biennio 2015-2016 di forte rallentamento (come i mercati avevano immaginato). Ne consegue che i numeri di oggi non riflettono in pieno l’accelerazione in atto, testimoniata dall’andamento delle scorte di materie prime e dai soft indicators. In rialzo, comunque, il dato ufficiale di crescita del PIL 2017, pari al 6,9%.

Economia Globale: il dibattito.

Lo stato di ottima salute dell’economia mondiale non ha lasciato senza parole (quando mai?) economisti ed esperti, tutti appassionatamente riuniti a Davos per il World Economic Forum.

Mohamed El Erian, noto “stratega” di fondi d’investimento, si chiede2 se la ritrovata dinamica di crescita a livello globale, spinta dagli investimenti, possa rappresentare un cambio di paradigma rispetto alla narrativa prevalente nell’ultimo decennio, centrata sul mantra della “stagnazione
secolare”, con il suo portato di congiuntura debole e “scarsamente inclusiva” (elegante eufemismo per dire che solo i redditi dei pochissimi, prevalentemente già ricchissimi, sono aumentati). L’interrogativo che (non) toglie il sonno agli esperti è il seguente: siamo finalmente di fronte a una crescita economica “sana”, alimentata da forze reali, piuttosto che finanziarie (Banche centrali, crescita del debito)? Oppure viviamo lo spurgo di terminale euforia, che infine contamina anche l’economia reale, di una bolla alimentata dal denaro a go-go immesso nel sistema dai padrini/padroni dei mercati, agevolata anche da una buona dose di good luck (Corea, Iran, Libia, Venezuela, Trump e populismi vari, per ora, non hanno fatto danni)?
Insomma dobbiamo chiudere il capitolo della stagnazione secolare riaperto da Lawrence Summers3 nel 2013, che ha corrotto il pensiero delle principali banche centrali, oppure viviamo una “ripresona” ciclica destinata a esaurirsi presto?

Se la risposta fosse positiva – ma lo scopriremo solo vivendo – staremmo per lasciarci dietro le spalle il famigerato new normal, la nuova normalità, evocata all’inizio del decennio dal più famoso gestore di obbligazioni di tutti i tempi, quel Bill Gross che, non a caso, da poche ore ha “chiamato” la fine del trend secolare del calo dei tassi d’interesse.

El Erian ipotizza che il lungo periodo di digestione della grande crisi (senza riduzione del debito, anzi, con ulteriori aumenti), di cui si festeggia il decennale proprio nel 2018, sia ormai arrivato al naturale capolinea, creando nel frattempo le condizioni per il suo superamento4 sui fronti dell’economia, della finanza, delle istituzioni, della politica. Sono scenari e, come tali, destinati a essere dimenticati in fretta all’eventuale infausto volgere contrario degli eventi. Ciononostante, non mancano segnali positivi di questa “beautiful normalization” – meravigliosa normalizzazione – composta di crescente fiducia imprenditoriale e maggiori investimenti, moderazione delle Banche Centrali, consapevole reazione delle élite alle montanti ondate del populismo, primi risultati (più o meno disastrosi) dei dilettanti allo sbaraglio (da Londra a Roma, senza passare per Washinghton).

Li segnala, tra gli altri, anche Gavyn Davies, economista e partner di Fulcrum Asset Management che, pur considerando prematura una risposta che non sia una scommessa, considera la significativa ripresa degli investimenti6 un segnale di possibile discontinuità strutturale.

Saranno i mercati finanziari a rovinare la festa?

L’anno è iniziato con i mercati azionari in accelerazione, rispetto al monotono, ma efficace tran tran rialzista del 2017. L’aria che si respira nei mercati azionari sembra quella della fine degli anni ’90 del secolo scorso. Qualcuno si ricorda la bolla delle dot.com e il famigerato acronimo “TMT” (telecoms, media, tecnology)?

Oggi molto è cambiato, a partire dalla struttura dell’ecosistema finanziario – dominato dagli investitori istituzionali – per non dire dei mercati della tecnologia, nelle mani di monopolisti globali che spadroneggiano nell’ambito dei social network, dei motori di ricerca, del commercio on line e così via. Siamo al deja vu? Rispetto alla fine degli anni ’90 sono simili i tassi di crescita dell’economia USA, il tasso di disoccupazione ormai sotto il 4% simile, il buzz, la narrazione, oggi centrata sui tormentoni del fintech/blockchain, IoT, AI ecc., ieri su internet e le dot.com. Uno sguardo all’andamento dell’indice dei semiconduttori dice più di mille parole. C’è la possibilità che l’anno che ci attende possa vedere il dispiegarsi di un potente effetto di fiducia che dal mercato azionario si riflette sulle attese di consumatori e imprese, in particolare negli Stati Uniti. Tale fenomeno trae alimento anche dalla recente riforma fiscale, la cui narrazione è disinvoltamente utilizzata a fini di marketing dalle maggiori imprese americane (con annunci di più investimenti, più assunzioni, stipendi più alti e così via).

All’euforia dei mercati azionari si affiancano altre dinamiche che per ora sono viste come forze benigne, ma che, se lasciate “indisturbate”, potrebbero alla fine creare problemi simultaneamente a economie e mercati.

La prima di queste è il calo del dollaro. Una medicina che, se assunta in piccole dosi reflaziona l’economia mondiale, aiuta i paesi emergenti e le imprese indebitate in dollari, favorisce i produttori di materie prime. Se però il calo dovesse diventare tracollo – e le recenti dichiarazioni del Ministro del Tesoro USA Mnuchin hanno fatto capire che l’amministrazione Trump, oltre a essere protezionista, è favorevole al dollaro debole – allora le conseguenze (flussi di capitali internazionali, economie europee, tassi d’interesse USA e mondiali) potrebbero essere pericolose. Anche perché l’improvvida correlazione tra negativa tra dollaro e materie prime (a partire dal petrolio, tornato ai massimi del 2014), riporterebbe in alto l’inflazione nominale togliendo nello stesso tempo ossigeno al reddito reale disponibile delle famiglie europee. Anche in questo caso, una cosa “buona” (il tanto atteso aumento dell’inflazione) potrebbe in breve avere effetti negativi. A partire, come detto, dai tassi d’interesse.

Sul fronte dei tassi, per ora, l’aumento delle tensioni è visibile solo nel dibattito tra esperti. In diversi evocano la fine del grande trend secolare ormai quarantennale di ribasso dei tassi d’interesse. I più sono convinti che in assenza di segnali inflazionistici quello di tassi, alla fine, possa rimanere un “rialzino”, portatore di ben pochi danni all’interno dei portafogli dei risparmiatori globali che, seppur mediati dagli investitori istituzionali, sono ancora pieni di obbligazioni.

Il rischio, qui, è quello di fare la fine della classica rana buttata nella pentola di acqua fredda con i fuochi accesi sotto. Intanto negli USA le curve dei tassi si appiattiscono, i tassi a breve salgono, i decennali ancora non rompono con decisione livelli considerati di simbolica “resistenza” contro il dilagare delle forze del male. Corrono anche voci che i venti dei flussi finanziari stiano volgendo contro il tesoro USA (la Cina e l’Asia starebbero diventando venditori nette di attività finanziarie statunitensi). Per ora siamo nell’ambito delle illazioni.

Di certo possiamo concludere che, se il passaggio dalla cosiddetta “epoca glaciale” (la grande stagnazione) al “riscaldamento globale” (un ritorno alla crescita degli anni ‘80-‘90) dovesse avvenire troppo in fretta, i mercati finanziari potrebbero ritrovare all’improvviso la volatilità perduta negli ultimi due anni.


Enrico Ascari – membro del Comitato Investimenti – Assiteca SIM