Fondi comuni: bene la raccolta, ma i rendimenti restano deludenti

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Nel 2015, secondo l’analisi Mediobanca, le sottoscrizioni hanno superato i riscatti per 25 miliardi. Ma l’industria italiana resta al 14° posto nel mondo e la sua incidenza sul Pil è di appena il 12%

Nel 2015 la raccolta netta dei fondi di investimento italiani è risultata positiva per il terzo anno consecutivo, dopo un lungo periodo – dal 2003 al 2012 – in rosso. Lo scorso anno, secondo i dati pubblicati da Mediobanca nel suo consueto rapporto annuale, le nuove sottoscrizioni hanno superato i riscatti per 25 miliardi di euro, il secondo migliore risultato degli ultimi 16 anni.

Il patrimonio

Tuttavia l’industria italiana dei fondi resta ben lontana dai livelli degli anni d’oro. I 1.003 fondi indagati dall’Ufficio Studi di piazzetta Cuccia contavano alla fine del 2015 un patrimonio aggregato pari a 292 miliardi di euro, dei quali 184 miliardi relativi a fondi comuni aperti. Nel 2004 (secondo le statistiche Efama) il valore dei fondi armonizzati italiani toccò il suo massimo storico, a 376 miliardi di euro. E l’Italia era al quarto posto mondiale, dietro soltanto a Usa, Francia e Australia: oggi è 14ma.

Non solo: l’incidenza dei patrimoni gestiti sul Pil oggi è pari al 12% contro il 42% raggiunto nel 1999. Un dato in controtendenza rispetto all’Europa dove l’incidenza nello stesso periodo è quasi raddoppiata, passando dal 48% all’86%.

I gestori italiani, aggiunge il report di Mediobanca, “hanno favorito lo spostamento all’estero, principalmente in Lussemburgo”, ma anche in Irlanda, “di una quota significativa dei patrimoni in gestione”. E questo si traduce anche in uno svantaggio per gli investitori che si trovano a rinunciare a una buona dose di trasparenza: perché “la trasparenza nel Granducato è inferiore a quella in Italia, mentre quella dei fondi irlandesi è assai più mediocre”.

I fondi “roundtrip” (costituiti all’estero da istituzioni italiane) alla fine del 2015 costituivano il 58% del patrimonio dei fondi aperti seguiti da gestori italiani (erano il 38% appena sette anni prima); per i nove decimi circa erano di diritto lussemburghese.

I risultati

Nel 2015, rileva lo studio, i fondi hanno chiuso i loro conti con un utile di 5,4 miliardi (al lordo delle imposte). Il rendimento netto medio del patrimonio è valutabile all’1,6%, e ha beneficiato particolarmente del recupero dei fondi azionari (6,1%) e dei bilanciati (2,7%), come pure dei fondi pensione, sia negoziali (2,5%) che aperti (2,9%); i fondi obbligazionari si sono fermati all’1,1%, mentre la performance dei fondi di liquidità e dei flessibili non è andata oltre lo 0,3%.

In un’ottica di lungo periodo, sottolinea Mediobanca, i rendimenti sono ancora insoddisfacenti; chi avesse investito in tutti i fondi comuni aperti italiani negli ultimi 32 anni avrebbe subìto, rispetto ad un impiego annuale in Bot a 12 mesi, una perdita poco inferiore a una volta il patrimonio iniziale. E il capitale iniziale sarebbe aumentato nel periodo di sole 4,15 volte contro le cinque dei Bot.

“Sulla base del tasso risk free, il frutto dei fondi aperti mette in evidenza una distruzione di valore pari a circa 84 miliardi di euro nell’ultimo quindicennio”.

I costi

Nel frattempo i costi di gestione hanno continuato a crescere: nel 2015 sono arrivati all’1,3% del patrimonio, contro l’1,2% del 2014. I più costosi sono i fondi azionari, che arrivano al 2,9%: oltre quattro volte rispetto alla media dei fondi azionari Usa.

L’Ufficio studi Mediobanca ha rilevato anche una elevata rotazione del portafoglio, che viene “rigirato” completamente ogni 11 mesi: per avere un termine di paragone, i fondi azionari americani impiegano in media due anni per completare la rotazione degli investimenti.
Gli oneri di gestione hanno proseguito a crescere in valore assoluto: nel 2015 hanno raggiunto i 3,5 miliardi di euro (dai 2,9 del 2014), il livello più elevato dal 2008.