I mercati guardano a rendimenti e inflazione, molto del resto è “rumore”

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Due anni fa, il 20 gennaio 2020, il presidente cinese Xi Jinping ammetteva finalmente davanti al mondo la pericolosità del coronavirus. Nei mesi precedenti i primi segnali della malattia erano stati sottovalutati dalle autorità locali della città di Wuhan e per qualche settimana anche il governo centrale di Pechino nascose le notizie relative alla velocità dei contagi.

Dopo due anni, il virus torna là dove è cominciato tutto: a dispetto dell’obiettivo “Zero Covid” e delle drastiche misure di isolamento, la variante Omicron è stata rilevata a Shangai, in altre città della costa e, il 15 gennaio, anche a Pechino.

Un anno dopo, il 20 gennaio 2021, si insediava alla Casa Bianca il nuovo presidente americano Joe Biden. La pandemia ebbe un ruolo decisivo anche in questo caso, Trump aveva dalla sua i tagli delle tasse e i record di Wall Street ma la pessima gestione dell’emergenza sanitaria gli fece perdere le elezioni. Se non ci fosse stato il coronavirus, con il suo tragico bilancio di vite umane e di posti di lavoro perduti, molto probabilmente oggi Trump sarebbe ancora alla Casa Bianca.

Nel gennaio 2022, lungo il confine ucraino si sta sviluppando il pericoloso confronto tra Russia e paesi NATO, una crisi locale solo in apparenza, rimanda infatti a un disegno più ampio perché la Russia ha dalla sua il sostegno della Cina. L’intesa tra i due paesi era impensabile appena pochi anni fa ma è stata resa possibile dagli errori diplomatici dei paesi occidentali e dal comune interesse di Mosca e Pechino a sfidare l’influenza globale degli Stati Uniti e ridisegnare la mappa dell’ordine mondiale.

La crisi ucraina ha la sua simmetrica corrispondenza nello Stretto di Taiwan, il braccio di mare che separa l’isola dalla terraferma cinese. Nei due posti più rischiosi del pianeta la posta in gioco sono le ambizioni neo-imperiali della Russia e il desiderio di affrancamento della Cina che “non nasconde più la sua forza”, come raccomandava Deng Xiaoping.

Alle onde sismiche provocate dai movimenti delle grandi faglie geo-strategiche globali, si aggiungono le scosse di superficie degli sviluppi della pandemia, la crescita economica ancora vulnerabile, l’inflazione, l’inversione delle politiche monetarie.

Un ricco menù di incertezze e di volatilità che però, nel lungo termine, si trasformano in rischio: se l’incertezza è imprevedibile, il rischio è misurabile. Inflazione, tassi in aumento e pandemia costituiscono motivi di pressione sui mercati che oscilleranno facilmente tra le modalità “risk on” e “risk off”.

Quest’ultima modalità, generalmente, mette nel frullatore delle vendite mercuriali anche i mercati emergenti ma la volatilità di breve termine è composta in larga misura da ciò che Daniel Kahneman definisce “rumore”, forme di errore che alterano valutazioni e giudizi. Le frenetiche settimane del febbraio e del marzo 2020 e il recupero dei mercati nei mesi successivi sono un ricordo recente che conferma facilmente le insidie del condizionamento del rumore.

Negli Stati Uniti i tassi aumenteranno tre, quattro volte a partire da marzo (ne sapremo di più tra pochi giorni, al termine della riunione della Federal Reserve). I prezzi scontano questi aumenti, che costituiscono il segnale, buona parte delle altre notizie sono rumore di breve periodo.

Poiché gli aumenti dei rendimenti tendono a penalizzare le economie emergenti, proviamo a sviluppare qualche considerazione:

1. le economie avanzate si avviano al pieno recupero dei crolli del 2020 mentre ai paesi emergenti e a quelli in via di sviluppo restano spazi da colmare. Per le economie emergenti gli ultimi due anni di convivenza con la pandemia sono stati pesanti se però osserviamo in filigrana, la sottoperformance degli ultimi dieci anni rispetto alle economie avanzate è dovuta in buona misura alle deludenti performance del listino cinese.

2. un altro punto fermo sono i tassi più alti negli Stati Uniti. Le banche centrali di Brasile, Messico, Repubblica Ceca, Russia e Ungheria, tra le altre, hanno cominciato ad alzare i tassi per contrastare l’inflazione e il deprezzamento delle valute; non ci sarà un altro “2013”, non si verificherà un deflusso dei capitali come accadde nella seconda metà di quell’anno, perché da allora non ci sono stati significativi flussi in entrata e, semmai, alcune economie sono riuscite a diminuire la dipendenza dai finanziamenti esteri.

La parte del leone nei flussi l’ha fatta la Cina ed è soprattutto lì che il debito, pubblico e privato, costituisce motivo di preoccupazione. Alcuni paesi hanno già orientato le politiche monetarie a condizioni del credito più costose, il mercato sconta un ulteriore avanzamento nel ciclo restrittivo prima di un relativo appiattimento delle curve;

3. “il bel treno generoso dell’una e ventidue … si fermava a Bayeux, a Coutances a Vitré, a Questambert, a Pontorson, a Balbec, a Lannion, a Lamballe, a Benodet, a Pont-Aven, a Quimperlé e avanzava gloriosamente carico di nomi …”. Proust ricorda con struggimento il treno verso le coste della Normandia e l’elenco delle fermate. Avrebbe voluto fermarsi in ciascuna di esse, indeciso tra quale paese scegliere perché tutti avevano una loro peculiare bellezza. Con molto meno struggimento e poesia, si tratta di scegliere anche nella geografia delle economie emergenti.

Debolezze e vulnerabilità non sono omogenee, ciascun paese o area geografica ha le proprie caratteristiche. Alcuni paesi sono più esposti di altri alle dinamiche delle economie avanzate (Cina, Repubblica Ceca, Ungheria, Messico), alcuni sono più sensibili ai rischi interni (ancora la Cina, l’India, la Turchia), alle fluttuazioni della valuta (paesi dell’America Latina, Russia, Turchia) o dei prezzi delle materie prime (Cile, Brasile, esportatori di gas e di petrolio).

L’incertezza del prossimo ciclo sta tutta nelle dinamiche dell’inflazione, se la Federal Reserve sarà più aggressiva delle attese nel contrasto all’aumento dei prezzi, mettendo però una seria ipoteca sulla crescita ancora vulnerabile, i mercati emergenti ne soffriranno. Ma, specularmente, i prezzi delle materie prime, il recupero dell’economia cinese e la ripresa dell’attività manifatturiera potranno segnare il 2022 come la fine del decennio perduto.

Non c’è fretta e non ci sono treni che stanno partendo, la volatilità di breve termine favorisce, come sempre, i programmi di accumulo mensile, quarant’anni di storia sono lì a dimostrare che in periodi di tempo ampi le economie emergenti presentano una bassa correlazione con quelle sviluppate. Oltre la nebbia del breve termine c’è la realtà delle materie prime e della manifattura, le economie emergenti sono alla ricerca del loro tempo perduto, l’ultimo decennio segnato dai deflussi di capitale e dalla pandemia.