Il libero scambio per massimizzare l’efficienza economica e il benessere globale. Come rispondere alle minacce di dazi
Secondo l’economia classica, l’applicazione di dazi alle importazioni presenta diversi svantaggi, che si riflettono sull’efficienza economica e sul benessere complessivo di un Paese. Il libero scambio è un principio economico secondo cui i beni e i servizi dovrebbero circolare tra le nazioni senza restrizioni: approccio che si basa sulla teoria classica del vantaggio comparato e mira a massimizzare l’efficienza economica e il benessere globale.
I dazi scoraggiano le importazioni, e spesso portano i Paesi colpiti a introdurre misure di ritorsione, riducendo le esportazioni del Paese che li ha imposti, ovviamente frenando il commercio globale e la crescita economica. I dazi alterano i segnali di prezzo, portando a una produzione inefficiente. Proteggere le industrie locali dalla concorrenza estera riduce l’incentivo a innovare e migliorare l’efficienza produttiva. Nel lungo periodo, ciò può rendere le aziende meno competitive a livello internazionale. Parallelamente i beni importati diventano più costosi. Questo porta a prezzi più alti riducendo il potere d’acquisto e il benessere complessivo.
Secondo la teoria del vantaggio comparato di David Ricardo, il libero scambio massimizza la produzione e il consumo globale. I dazi ostacolano questo meccanismo, portando a una perdita netta di benessere economico.

Il pensiero classico
Diversi economisti classici e moderni hanno criticato i dazi e il protezionismo, evidenziandone gli effetti negativi sul benessere economico.
Adam Smith (1723-1790). Nel suo capolavoro La ricchezza delle nazioni (1776) critica fortemente le restrizioni commerciali e i dazi, sostenendo che il libero scambio favorisce la specializzazione e la crescita economica. Introduce il concetto di “mano invisibile”, secondo cui il mercato, se lasciato libero, ottimizza la distribuzione delle risorse.
David Ricardo (1772-1823). Teorizza il vantaggio comparato, dimostrando che ogni nazione dovrebbe specializzarsi nella produzione in cui ha il maggiore vantaggio relativo e scambiare con gli altri. Secondo Ricardo, i dazi riducono i benefici del commercio e abbassano il benessere complessivo.
John Stuart Mill (1806-1873). Approfondisce le teorie di Smith e Ricardo, ribadendo che il libero scambio porta alla massima efficienza economica. Ammette che ci possono essere eccezioni temporanee per proteggere industrie nascenti, ma avverte che il protezionismo diventa spesso una scusa per interessi particolari.
Frédéric Bastiat (1801-1850). Con la sua ironica Petizione dei fabbricanti di candele, dimostra l’assurdità del protezionismo, paragonando i dazi all’idea di bloccare la luce del sole per favorire i produttori di candele. Sostiene che i dazi creano illusioni di beneficio ma in realtà danneggiano i consumatori e l’economia.
Ludwig von Mises (1881-1973) e Friedrich Hayek (1899-1992). Entrambi economisti della Scuola Austriaca, criticano il protezionismo come una forma di intervento statale che distorce il mercato e rallenta la crescita economica. Hayek in particolare vede il libero mercato come essenziale per la libertà individuale ed economica.
Milton Friedman (1912-2006). Sostiene che il protezionismo è spesso giustificato da ragioni politiche piuttosto che economiche. Mostra come i dazi proteggano industrie inefficienti e penalizzino i consumatori con prezzi più alti.
Paul Samuelson (1915-2009). Sebbene riconosca alcune situazioni in cui i dazi possono avere effetti temporaneamente positivi, sottolinea che nel lungo periodo il commercio libero porta a una maggiore crescita e prosperità.
Tutti questi pensatori hanno contribuito a costruire il consenso economico a favore del libero scambio, sottolineando che i dazi, pur potendo favorire alcuni gruppi a breve termine, danneggiano l’economia nel suo complesso.
Come rispondere alle minacce di dazi
In un recente articolo pubblicato sulla testata InPiù l’ex Ministro delle finanze Vincenzo Visco si chiedeva come rispondere alle minacce di dazi, affrontando il tema da un’angolazione estremamente interessante.
Uno dei primi atti di Trump è stato uscire dagli accordi Ocse sulla tassazione delle multinazionali che sia pure con molti limiti, prudenza, ed insufficienze, affrontava la questione dell’elusione fiscale delle multinazionali prevedendo una tassazione minima a livello globale e criteri per una ripartizione dei profitti tra i Paesi in cui l’attività viene svolta. Gli accordi riguardavano in modo particolare le grandi multinazionali del web che sono in grado di realizzare profitti in tutto il mondo gestendo da remoto le loro attività e quindi evitando l’imposizione a livello nazionale consentita, in base ai trattati esistenti, soltanto in presenza di una “stabile organizzazione” in ciascun paese. In attesa dell’entrata in vigore dei nuovi accordi Ocse, molti Paesi, tra cui l’Italia, hanno varato negli anni passati delle apposite web tax per superare gli ostacoli esistenti ad una tassazione ancorché minima di questi giganti del web.
Colpire i colossi Usa della rete, ma senza web tax
In presenza della minaccia di introduzione di dazi sui prodotti europei da più parti si è suggerito, come ritorsione, di aumentare la web tax esistente (o di introdurne una nuova più efficace). L’economista francese Zucman ha suggerito di approfittare della situazione per risolvere una volta per tutte la questione della corretta tassazione delle multinazionali (americane). E’ chiaro che l’obiettivo è assolutamente condivisibile e che la mancata tassazione dei profitti delle grandi imprese (per lo più americane) è una manifestazione di prepotenza e arroganza intollerabili. Tuttavia intervenire in modo efficace e non soggetto a ritorsioni dolorose è piuttosto complicato.

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