Orientati verso l’Asia in un quadro di crescita globale senza smalto

Talib Sheikh -

I mercati sono in uno stato di mutazione continua. L’incertezza derivante sia dall’economia reale che dall’economia politica ha spinto le banche centrali ad assumere un atteggiamento accomodante, cercando di stabilizzare i mercati e di impedire un calo del sentiment aziendale, che minerebbe l’espansione economica.

La fonte della debolezza economica affonda le proprie radici nella guerra commerciale iniziata oltre un anno fa e culminata con la scelta dell’amministrazione USA di imporre tariffe su $250 miliardi di importazioni cinesi. Il fatto che l’ultima tranche di tariffe sia stata imposta il 24 settembre, appena tre giorni dopo il picco dello S&P 500, non è un caso. Il rialzo sincronizzato nella crescita globale del 2017 ha ceduto il posto a una improvvisa frenata negli scambi globali nell’ultimo trimestre del 2018. Sembra che la fase di debolezza dell’economia si sia protratta nel primo trimestre del 2019, con i maggiori indicatori economici anticipatori che non hanno mostrato segnali decisivi di un’inversione di tendenza. In effetti le prime letture preliminari dei PMI dell’industria manifatturiera sono rimaste a livelli preoccupanti a marzo.

Tuttavia, per un asset allocator, il dinamismo economico rappresenta solo uno dei fattori chiave per le decisioni e non ne costituisce mai l’unico driver. La risposta politica, il sentiment degli investitori e le valutazioni giocano tutti un ruolo chiave. Così, il monitoraggio delle politiche negli ultimi mesi da parte dei due maggiori attori della guerra commerciale è stato fondamentale.

La Cina sta mostrando una rinnovata spinta alla spesa per le infrastrutture e sta cercando di stimolare un’accelerazione nell’aumento del credito, invertendo almeno in parte il focus sulla riduzione della leva finanziaria degli ultimi due anni. Un cambiamento simile, sempre in chiave accomodante, si è verificato negli Stati Uniti, dove la Federal Reserve ha cambiato radicalmente direzione negli ultimi mesi. Il culmine di questo processo è coinciso con la riunione del FOMC (Federal Open Market Committee) di marzo, che ha segnalato l’assenza di aumenti dei tassi per i prossimi due anni e ha confermato che il processo di normalizzazione del bilancio (il quantitative tightening) cesserà nel settembre 2019. Entrambe queste azioni hanno contribuito a sostenere i mercati azionari. L’indice S&P 500 è cresciuto del 12% da inizio anno e il suo rapporto P/E forward a 12 mesi è passato da un minimo degli ultimi 5 anni di 13.6x all’attuale 16.4x. Lo Shanghai Composite ha raddoppiato gli utili USA da inizio anno, aumentando del 25%, arrivando a scambiare a un multiplo P/E di 11.2x.

Con il sentiment degli investitori e le valutazioni che ora si sono approssimati al” fair value” e le risposte politiche ora in atto, le scelte di allocazione degli asset fanno sempre più affidamento sulle previsioni di crescita per i prossimi trimestri. I segnali della curva dei rendimenti sono diventati sempre più rilevanti nelle ultime settimane con lo spread 3 mesi-10 anni che recentemente ha registrato un’inversione per la prima volta dal 2007. Sebbene la curva dei rendimenti sia uno dei più affidabili indicatori anticipatori di recessione, riteniamo che la sola inversione non sia sufficiente a giustificare una tale previsione in questa congiuntura.

Questo per due ragioni principali: in primo luogo, la pressione al ribasso del QE sulla componente di premio al termine del rendimento di lungo periodo del bond (cioè quel premio che gli investitori richiedono per detenere un asset a reddito fisso a più lunga scadenza, che è sceso da una media di 100 punti base negli anni precedente alla Grande Crisi Finanziaria a -75 punti base oggi) ha reso le inversioni più probabili per ogni livello di tassi a breve termine. La domanda cruciale è se i tassi di interesse a breve termine siano superiori a quelli che l’economia può sopportare.

Riteniamo che l’attuale tasso di interesse statunitense sia vicino al cosiddetto “tasso neutrale” ed è quindi improbabile che, da solo, possa trascinare l’economia in una recessione. In secondo luogo, la maggior parte degli indicatori economici del mercato del lavoro, le rilevazioni della fiducia dei consumatori, l’attività dell’edilizia e l’inflazione non segnalano una recessione imminente. Inoltre troviamo difficile identificare le fonti di squilibri strutturali che hanno invece causato le crisi precedenti. A dire il vero, la crescita è rallentata, passando da un tasso insostenibilmente superiore al trend ad uno un po’ più vicino al potenziale, ma sarebbe prematuro isolare quel deterioramento. Anche se ci aspettiamo che la battaglia tra Stati Uniti e Cina per l’egemonia globale costituisca una preoccupazione generazionale, il nostro scenario di base prevede che il ridimensionamento della guerra commerciale USA-Cina a cui abbiamo assistito negli ultimi mesi continuerà, permettendo alla crescita globale di stabilizzarsi su livelli vicini al trend.

Il problema con cui gli investitori devono misurarsi è il trend di crescita piuttosto basso (appena sotto il 2% negli US, l’1% nell’area euro, prossimo allo 0% in Giappone ed al 6% in Cina). Con i margini di profitto già estesi, i tassi tendenziali di crescita si tradurranno probabilmente in una crescita degli utili piuttosto esigua, attorno al 5%. Dato anche lo spazio molto limitato per una crescita delle valutazioni, la strategia è quasi neutrale sull’equity.

Abbiamo un bias positivo verso l’Asia, dove possiamo ancora trovare del valore e un rialzo ciclico delle aspettative sugli utili nei prossimi 1-2 anni. Manteniamo un’esposizione sul credito high yield dei mercati sviluppati, dove crediamo ancora che gli spread creditizi disponibili per un portafoglio orientato al reddito siano attraenti e che i livelli del debito, pur elevati, siano gestibili grazie alla generazione di flussi di cassa e all’elevata copertura degli interessi. La strategia continua a non detenere obbligazioni investment grade poiché in questa asset class non scorgiamo sufficiente valore. Siamo rimasti costruttivi sul debito emergente, preferendo una combinazione selettiva di titoli societari e debito sovrano in valuta locale in paesi con un carry interessante e fondamentali in miglioramento.

Fondamentalmente, i tassi lenti di crescita tendenziale, un aumentato rischio politico e periodi di volatilità più frequenti fanno sì che gli investitori debbano tenere un approccio più flessibile.


Talib Sheikh – Head of Strategy, Multi-Asset – Jupiter Asset Management