GAM: Persistono i timori sull’inflazione e sui debiti pubblici, l’oro si conferma il grande vincitore
Il rientro dalle vacanze trova le azioni ai massimi e in buona compagnia con i bitcoin, l’oro, l’offerta di moneta. Ma è ai massimi storici anche il debito federale e l’inflazione non sembra cedere.
Negli Stati Uniti è stato pubblicato il primo rapporto sull’occupazione dopo il brusco licenziamento della presidente del Bureau of Labor Statistics, ritenuta responsabile di infedeli revisioni dei dati. Il cambio del messaggero non cambia il messaggio, i 22.000 nuovi occupati creati in agosto corroborano l’indebolimento del mercato del lavoro, il tasso di disoccupazione è salito al 4,3%. I prezzi dei futures sui Fed Funds scontano ora un taglio dei tassi nella riunione della prossima settimana con una probabilità del 100%, il consenso di mercato è su tassi inferiori al 3% entro la fine del 2026.
In realtà il taglio dei tassi venne anticipato dallo stesso Powell a fine agosto; il suo discorso all’annuale Simposio di Jackson Hole ha segnato una discontinuità negli obiettivi delle politiche della banca centrale. Il presidente della Federal Reserve ha difeso le scelte intraprese nel corso dell’anno, ha commentato le dinamiche dello scenario economico e, poiché i fatti sono cambiati, cambiano anche le idee e così l’indebolimento del mercato del lavoro è diventato prioritario rispetto ai rischi procurati dai dazi alla stabilità dei prezzi.
Le attese sul taglio settembrino hanno fatto aumentare il prezzo dei titoli del Tesoro: il rendimento a due anni, sensibile alle aspettative sui tassi, è sceso a 3,48% mentre è rimasto indifferente il rendimento delle scadenze più lunghe. L’attenzione del mercato si sta spostando dalle politiche monetarie a quelle fiscali, la sostenibilità dei deficit è adesso più importante dei tassi. I rendimenti obbligazionari globali a lungo termine sono in aumento un po’ ovunque, le scadenze a trent’anni del Tesoro americano sono prossime al 5%, la pari scadenza inglese è stata sopra il 5,7%. La Gran Bretagna ha collocato quattordici miliardi di una scadenza decennale al 4,88%, plastica evidenza della diffidenza verso il debito assunto per finanziare la spesa corrente.
Le condizioni del debito preoccupano i mercati, i fabbisogni e le nuove emissioni pongono le basi di futuri enormi impegni di spesa. Il caso della Francia è rappresentativo di un malessere che innerva i paesi occidentali dove finanze pubbliche “tirate” procedono a fianco di instabilità politica e pubbliche opinioni polarizzate, sempre meno sensibili al sentire collettivo, al “bene comune”, per dirla con un’espressione del secolo scorso ormai desueta.
La Germania mostra deboli segnali di ripresa ma restano irrisolte le sfide strutturali, a cominciare dal costo dell’energia e dall’eccessiva dipendenza dalla Cina. L’economia tedesca sembra ancora indifferente al programma di spesa del governo, l’annunciato cambio di paradigma non ha ancora avuto riscontri nelle statistiche economiche. Lo spettro dei dazi si aggira per l’Europa, privi della rete protettiva dei “quantitative easing” fornita dalle banche centrali, i governi devono fare i conti con la propria responsabilità verso gli elettori.
Dall’altra parte del mondo, a Pechino, si sono riuniti i paesi antagonisti degli Stati Uniti, Impazienti nel desiderio di ridefinire l’ordine globale. Le autocrazie irridono apertamente l’inefficienza e le ipocrisie degli ordinamenti democratici, Paesi fino a ieri divisi tentano prove di distensione.
Cina e India mettono da parte l’antica inimicizia cercando nuove intese commerciali, la Russia di Putin, dopo il vertice in Alaska che ha messo fine al suo isolamento internazionale, si ripresenta con piena dignità nella ribalta dei BRICS, venditore a sconto di petrolio a Cina e India.
Lo scenario autunnale che si presenta all’investitore è dunque costituito da valori azionari ai massimi storici, da un mercato obbligazionario innervato dai timori sui debiti pubblici, dalla debolezza del dollaro, dalla determinazione dei maggiori paesi emergenti ad occupare maggiori spazi politici.
Persistono i timori sull’inflazione e l’oro si conferma il grande vincitore, ancora sostenuto dagli acquisti delle banche centrali e con performance relative superiori a quelle dello S&P 500, un fenomeno che non è rivelatore di ottimismo, diciamo. La diversificazione fuori dagli Stati Uniti e dall’Europa porta evidentemente ai mercati emergenti.
Nella loro globalità, i mercati emergenti sono stati a lungo considerati a buon diritto vulnerabili ai rischi specifici dei singoli paesi. Da tempo però si presentano con sistemi economici e finanziari irrobustiti e disciplinati, il dividendo demografico comporta prospettive di crescita superiori a quelle delle economie avanzate. Il loro contributo alla crescita globale è stimato raggiungere il 65% nel prossimo decennio e nove economie emergenti si collocheranno tra le maggiori venti al mondo.
Il rapporto medio tra debito pubblico e PIL è di poco sopra il 60% e non dimentichiamo l’aiuto degli attesi tagli dei tassi della Federal Reserve: l’alleggerimento delle condizioni finanziarie potrebbe dare l’avvio a un ciclo virtuoso in cui i tassi più bassi stimolano il credito, gli investimenti e la domanda dei consumatori.

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Sala Stampa