Danno da super lavoro e le ricadute sulla salute: il lavoratore può chiedere un risarcimento
a cura dell’avv. Daniele Cattaneo, fondatore dello Studio Legale Cattaneo
La giurisprudenza legittima l’azione giudiziaria del lavoratore verso il datore di lavoro nel caso in cui si manifesti un danno alla salute da stress per superlavoro. Della vicenda può essere interessata anche l’INAIL, benché il superlavoro non rientri nelle patologie codificate dal regolamento INAIL.
La norma di riferimento è sempre l’art. 2087 c.c. Spetta al lavoratore dimostrare il nesso di causalità tra peggioramento della salute e modalità gravosa di svolgimento della prestazione lavorativa.
Non è, però, necessario provare la colpa del datore di lavoro, trattandosi di responsabilità contrattuale.
La Suprema Corte (Cass. Civ., Sez. lav., ord. 34968 del 28.11.22) afferma: “Il lavoratore a cui è stato richiesto un lavoro eccedente la tollerabilità, per eccessiva durata o per eccessiva onerosità dei ritmi, lamenta un inesatto adempimento altrui, rispetto all’obbligo di sicurezza, cosicché egli è tenuto ad allegare rigorosamente tale inadempimento, evidenziando i relativi fattori di rischio”.
Il riparto dell’onere probatorio è chiaro: “Il lavoratore deve provare lo svolgimento della prestazione secondo modalità nocive e il nesso causale tra il lavoro svolto e il danno. Il datore di lavoro, per il dovere di assicurare che l’attività non sia pregiudizievole per l’integrità fisica e la personalità del dipendente, deve dimostrare che la prestazione si è svolta invece secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, con modalità normali, congrue e tollerabili”.
Detta pronuncia chiarisce che l’azienda: “deve dimostrare di avere osservato le regole proprie che governano l’attribuzione dei compiti al dipendente”. Il datore di lavoro può contestare il fatto che il danno non sia ricollegabile all’attività lavorativa, ma ad una causa esterna all’ambiente di lavoro, fornendo la prova relativa.
L’ordinanza della Suprema Corte n. 34968/22 concerne la vicenda di un impiegato dello Stato colpito da infarto a causa delle condizioni di disorganizzazione e di carenza di personale, che lo avevano costretto a ritmi frenetici. Egli lamentava la violazione dell’art. 2087 c.c., per non avere il datore di lavoro adottato misure utili a tutelare le condizioni di lavoro.
La Suprema Corte n. 34968/22 ha accolto la domanda, riformando le sentenze di merito negative, sostenendo “[…] la Corte territoriale, asserendo che mancherebbe la prova delle violazioni che il ricorrente assume essere imputabili al Ministero, lo fa con affermazioni non del tutto univoche, ma che appaiono riconducibili, per un verso, alla mancata indicazione “di una specifica norma, nominata o innominata” a fondamento dell’inadempimento; si tratta tuttavia di affermazione errata, in quanto oltre a non potersi imporre al lavoratore di individuare la violazione di una specifica norma prevenzionistica […], ancor meno ciò che può essere richiesto quando, adducendo la ricorrenza di prestazioni oltre la tollerabilità, è in sé dedotto un inesatto adempimento all’obbligo di sicurezza, indubbiamente onnicomprensivo e che non necessita di altre specificazioni, pur traducendosi poi esso anche in violazione di disposizioni antinfortunistiche”.
E’ perciò che, sempre Cass. 34968/22, ha espresso il principio per cui: “in tema di azione per risarcimento, ai sensi dell’art. 2087 c.c., per danni cagionati dalla richiesta o accettazione di un’attività lavorativa eccedente rispetto alla ragionevole tollerabilità, il lavoratore è tenuto ad allegare compiutamente lo svolgimento della prestazione secondo le predette modalità nocive ed a provare il nesso causale tra il lavoro così svolto e il danno, mentre spetta al datore di lavoro, stante il suo dovere di assicurare che l’attività di lavoro sia condotta senza che essa risulti in sé pregiudizievole per l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore, dimostrare che viceversa la prestazione si è svolta, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, con modalità normali, congrue e tollerabili per l’integrità psicofisica e la personalità morale del prestatore”.
