Fondazione Spremberg: una nuova prospettiva per il verde, non solo a Milano. Le occasioni perse e le occasioni da cogliere

Lapo Mazza Fontana -

— di Lapo Mazza Fontana —

Fondazione Spremberg: una nuova prospettiva per il verde non solo a Milano.
Stefano Mancuso, ormai popolare divulgatore scientifico, non solo in televisione e sui SOCIAL MEDIA, nonché direttore del Laboratorio internazionale di neurobiologia vegetale della Università di Firenze, nel suo libro FITOPOLIS, LA CITTÀ VIVENTE traccia un quadro estremamente preciso della condizione attuale della urbanistica contemporanea, ne descrive il percorso ed i limiti, ma soprattutto ne traccia con decisione le prospettive presenti e future, non tanto in un’ottica di auspicabile ottimismo, ma di vera e propria urgenza di sopravvivenza.
Mancuso identifica non solo l’individuo umano come soggetto protagonista della collocazione urbana, ma colloca a sua volta la città stessa in uno spazio STRICTO SENSU organico e dotato di suo respiro vitale. Citando proprio un passo del suddetto testo:

“L’idea, analoga a quella di Santorio (medico italiano dell’Università di Padova d’epoca rinascimentale, ndr) di studiare la città considerando l’ingresso e l’uscita di flussi energetici e di materiale, risale almeno alla seconda metà del XIX secolo. E per la precisione a Patrick Geddes, il geniale botanico urbanista che abbiamo iniziato a conoscere alcune pagine fa. Geddes, ricordiamolo, visse in un periodo in cui il sentimento prevalente era la fede in un progresso industriale che si riteneva illimitato. Perciò la sua critica ecologica ad un’urbanizzazione senza confini, che Geddes dimostrò essere fisicamente impossibile con i suoi studi sul metabolismo della città, rimase del tutto inascoltata al tempo, così come rimane sostanzialmente ignorata ai nostri giorni. Secondo Geddes il funzionamento delle città si basava su fattori che potevano essere misurati abbastanza precisamente. Per calcolarli nel 1885 misurò i flussi energetici e di materiali riportandoli in una tabella che teneva conto di ogni ingresso e uscita dal sistema urbano. La tabella consisteva in un elenco delle fonti di energia e dei materiali necessari per ogni prodotto utilizzato nella città.”

Un passo questo molto esplicativo di un problema che dopo anni di trascuratezza oggi è ormai non prorogabile.
Mancuso prosegue poi infatti con un excursus documentato sulla evoluzione di tali misure antropometriche, ma va detto che un fondamentale equivoco tra urbanizzazione ed inserimento armonico nei fattori naturali degli insediamenti umani insiste a livello storico ab origine, nel vero senso del termine.

Il panorama da sempre circostante e connaturato anche alla inurbazione fin dai tempi dei palazzi babilonesi o micenei, fatto prevalentemente di vegetazione, diventa da dato scontato ad elemento superfluo e sacrificabile, anzi eccessivo se non fastidioso.
Ci si consenta di fare, ovviamente per iperbole, fin da subito un eccessivamente ardito paragone tra Babilonia e Piazza San Babila (se non proprio tra Babilonia e Piazza Cordusio, visto che Babilonia era nota per i suoi magnifici giardini pensili, mentre gli arditissimi progettisti della ristrutturazione della CURIA DUCIS/CORDUSIO pare che FORSE metteranno due o tre aiuole naniformi, per preservare il “cannocchiale” dal Duomo al Castello Sforzesco, dicunt).
Orbene nel lampante caso di San Babila la genialità pseudoprogressista milanese ha rifatto il cosiddetto “salotto di Milano” esprimendo un palese fastidio per la piantumazione ad alberi, ovvero semplicemente facendo una spianata brulla priva della minima personalità, col parziale pentimento di qualche alberello in fondo, ormai in Corso Europa, come a dire “non ce ne siamo proprio del tutto dimenticati, è che sapete, gli alberi sporcano, perdono le foglie, bisogna curarli e costano; ne aggiungeremo qualcuno in periferia, almeno sulla carta, così potremo dire di averne aumentato il numero in generale”.

Ma nel frattempo se Duomo è ovviamente e indiscutibilmente la prima piazza di Milano, San Babila la seconda e forse Cordusio la quarta, dietro il terzo posto di Piazza Castello/Cairoli (anche se sull’altra spianata brulla di Cairoli anche qui ci sarebbe da farsi delle domande, visto che anche qui il verde promesso ha lasciato il posto al mero cemento)… a quale piazza spetterebbe la attribuzione di quinta piazza più importante della capitale lombarda?
Non a Piazza Fontana, rara eccezione di piazza tipicamente italiana, e pure lietamente alberata, nella Milano strutturalmente e storicamente sempre piuttosto carente di piazze e piazzette. Non a Piazza S.Stefano/Verziere, già deprivate da lungi del laghetto e poi materialmente stuprate da un brutto edificio in stile base lunare degli anni sessanta, oltre che dagli altrettanto discutibili edifici tutt’intorno. Non a Largo Augusto, anche essa un po’ meglio ristrutturata, bisogna dirlo, ma anche qui non con abbondanza di verde. Neanche alla perfino mancata Piazza San Marco, anche essa deprivata del suo laghetto, detto EL TOMBON, rimasto solo nel nome del ristorante soprastante, ed anche qui giova ricordare, ancora una volta, la bruttissima occasione mancata della parziale riapertura dei Navigli, ad incredibile portata di mano con le escavazioni della cerchia interna dei Navigli per la linea blu della metropolitana. Una opera che avrebbe recuperato la Storia stessa della città, con un ulteriore enorme booster per il turismo e per la immagine perfino di tutta Italia. Ma anche in questo caso mancò il valore, oltre che la fortuna.
Potremmo dire allora sicuramente che il podio spetta quindi a Piazza della Scala, anche lei fortunatamente adornata, finalmente, di alberi di consistente presenza? Sì, in tal caso possiamo dire che il quinto posto è meritato. E chi spetterebbe allora chiudere un ideale doppio podio a sei posti?
Sicuramente per importanza fisica e storica si potrebbe dire Piazzale Loreto: e qui casca di nuovo l’asino, con un progetto, come si diceva nello scorso articolo, approvato e poi abortito, talmente confusionario e strafottente nei confronti non solo del verde urbano, ma anche della viabilità, strettamente vitale per tutta la città, da aver indotto persino Palazzo Marino, sotto il peso delle inchieste giudiziarie e dell’ormai diffusissimo malcontento cittadino, ad attenuare le proprie certezze, anche in tal caso lunari.

In tal proposito suggerisce Stefano Spremberg, presidente della omonima Fondazione:

Secondo me la soluzione per piazzale Loreto come del resto per tutta Milano, è proprio quella indicata da studiosi come Stefano Mancuso, e che è del resto supportata dai più avanzati centri studi universitari, ed anche, mi permetto di dire, dagli architetti e dai costruttori più illuminati, se possiamo usare questo termine. Ovvero mettere a verde il maggiore numero di aree possibili in città e fuori città. Ovunque, potremmo dire, ed è evidente che ne deriva un guadagno per tutti, fin da subito, per non parlare delle generazioni future. Nel caso di Loreto la piastra su cui immettere una area a verde, anche boschiva a basso fusto vista la presenza della metropolitana sottostante, evidentemente va calcolata con attenzione, ma potrebbe essere una soluzione praticamente ideale, a costi sostenibili, senza modificare o danneggiare lo snodo viario, strategico per il traffico non solo della zona, già di per sé strategica, ma per tutta la città e anche per l’hinterland. In tempi anche estremamente ragionevoli se non addirittura abbastanza rapidi e senza dover interdire l’accesso a tutta la piazza per i lavori sarebbe secondo me auspicabile un lieve innalzamento del livello attuale delle presenti aiuole, oggi francamente inutili e abbandonate a sé stesse, per realizzare un piccolo parchetto ad isole, magari collegate tra loro da una passerella in sopraelevazione per pedoni, quindi più fruibili dal pubblico, oltre che utili per attraversare il piazzale da un punto all’altro, ed eventualmente arricchite da una piccola ma prestigiosa collezione di sculture da esterno, ottenendo così un quadruplo risultato: restituire una molto migliore piazza ai milanesi, anche nel passaggio, trasformare un’arida rotatoria in una gradevole piccola area boschiva, mantenere la necessaria circolazione viaria, offrire un ulteriore abbellimento artistico per arricchire una città importante e celebre nel mondo, anche come centro culturale, come Milano”.

In questa direzione non a caso vanno le maggiori città europee, tranne Milano, rimasta incredibilmente indietro ad un modello di sviluppo in stile anni settanta/ottanta, forse anche per impostazione generazionale degli attuali decisori, segnatamente anacronistica.

Appare quindi emergenziale un generale ripensamento di un modello di sviluppo dimostratosi indubbiamente propulsivo in una prima fase, ma eccessivamente problematico ed in definitiva fallimentare nella sua seconda e conclusiva realizzazione. Senza la integrazione tra uomo ed ambiente naturale circostante il fallimento è già nel progetto basilare. Non basta il greenwashing di qualche piantumazione simbolica, talvolta persino paradossale e controproducente: non ci crede più nessuno. Nessuno può negare i meriti di un rilancio in grande stile che Milano ha vissuto negli ultimi anni, ma altrettanto nessuno può non vederne le gravi mancanze. Ma ancora molto si può fare per recuperare e riqualificare: Milano forse se lo merita anche.