È tutto oro quello che luccica?
I primi nove mesi del 2025 ci consegnano mercati azionari globali in grande salute, un prezzo dell’oro ai massimi di sempre, e buone performance per i mercati obbligazionari. Anche il dollaro sembra aver arrestato il suo trend di discesa da inizio anno. Tutto bene allora?
La narrativa sulla rivoluzione dell’Intelligenza Artificiale sembra prendere forza di giorno in giorno, gonfiando le valutazioni di borsa. Ha allontanato i timori di una recessione globale, e fors’anche lo spettro dell’inflazione. L’argomento della prosperità generale creata dall’AI influenza anche i bond corporate, i cui spread sono ai minimi, e i mercati emergenti, sia equity che bond, che continuano a correre. E corre anche l’oro, perché ci si fida sempre meno di banche centrali che perdono ogni giorno un pezzo di indipendenza e, in fondo, i debiti non sono esattamente spariti. Insomma, l’unica asset class che non incontra il favore degli investitori oggi sembrano essere i titoli obbligazionari governativi dei paesi occidentali. E non solo i Treasuries: nubi fosche si addensano su Francia e Regno Unito.
Poiché siamo investitori per natura “contrarian”, e anche un po’ “vecchia scuola”, non possiamo fare a meno di chiederci: è tutto oro quello che luccica?
L’ammontare degli investimenti effettuati/annunciati è mostruoso: solo per il 2025 si stima un piano di investimenti per le imprese americane da 400 a 500 miliardi di dollari per la costruzione di datacenter. Questi enormi investimenti generano a loro volta una fame di energia altrettanto gigantesca. Citigroup stima che la domanda di calcolo dell’intelligenza artificiale richiederà ulteriori 50 GW di capacità energetica globale entro il 2030 (un po’ meno dell’intera capacità installata odierna del Regno Unito), portando a 2,8 trilioni di dollari di spesa globale incrementale.
Cosa ci preoccupa? Una delle nostre stelle polari è la teoria del ciclo del capitale: un eccesso di investimenti in un determinato campo, per quanto importante, porta prima o poi a mal-investimenti, e al crollo delle illusioni in termini di ritorni attesi.
Intendiamoci: l’AI è il futuro, ne siamo convinti. Ma i cicli di ammortamento di datacenter e chip sono brevi (3-5 anni) e l’ammontare di ricavi attesi sufficienti a coprire, dopo aver spesato gli altri costi, questi ammortamenti è enorme: ipotizziamo circa 10 volte tanto i ricavi attuali. Possibile? Forse, con una sostituzione massiccia di lavoro umano qualificato con implicazioni sociali enormi e tempi probabilmente lunghi.
Nel breve non possiamo certo escludere che la corsa degli investimenti in AI continui. Anzi, è molto probabile. Ma non possiamo fare a meno di domandarci: se la maggior parte dei cash flow delle aziende che vi sono impegnate, per quanto giganteschi, sarà sempre più eroso da questi investimenti, che ne sarà delle loro valutazioni di Borsa?
Le implicazioni per le scelte di investimento
Continuiamo a preferire un posizionamento “obliquo” e non diretto al tema dell’IA attraverso “facilitatori” o realtà da “special situation”, ma anche titoli tecnologici cinesi con valutazioni distanti dagli equivalenti statunitensi. E soprattutto attraverso l’uranio perché pensiamo che la soluzione di lungo periodo al problema della crescente domanda energetica, connessa anche all’AI, sia il nucleare.
Anche sull’oro continuiamo ad essere costruttivi. Il motivo è presto detto: aumento dei dubbi sulla sostenibilità dei debiti pubblici sovrani, a partire da quello americano. Sostituzione del dollaro con l’oro nelle riserve delle banche centrali dei paesi emergenti. Domanda del settore privato in crescita, ma a partire da un’allocazione iniziale molto bassa. L’oro rimane in una fase di accumulo aggressiva. Fino a quando non raggiungerà almeno la sua media a lungo termine in termini di rapporto rispetto al valore del mercato azionario (oggi il rapporto tra indice Dow Jones e oro è 11 volte, rispetto ad una media storica di 8[1]) c’è ancora un significativo potenziale di rialzo. Ovviamente questo rapporto può tornare verso la propria media di lungo periodo in due modi: con un ulteriore corsa dell’oro, con un calo del mercato azionario, o con una combinazione delle due cose.
E se uranio e oro sono protagonisti, i titoli di Stato europei sono i grandi assenti. In Europa gli investimenti in infrastrutture e difesa, con poche eccezioni, restano sulla carta. I sistemi di welfare restano generosi e insostenibili di fronte a trend demografici sfavorevoli, mentre Paesi come la Francia mostrano un peggioramento dei conti pubblici e forte instabilità politica. E per contenere debiti pubblici in continuo aumento, la via politicamente praticabile non è quella di tagli drastici al welfare, ma quella della monetizzazione strisciante, ovvero lasciare che i tassi reali diventino negativi, ovvero la “repressione finanziaria”. Arriveranno anche i controlli di capitali? Una cosa è certa: senza piani di investimento orientati alla crescita e riforme strutturali volti a liberalizzare il mercato unico – come suggerito dal “Piano Draghi” – la stagnazione rischia di peggiorare e tradursi in ulteriore spinta ai populismi.
Quanto ai listini azionari europei, dopo un primo trimestre sostenuto dai flussi in uscita dagli USA, sono tornati a riflettere la stagnazione e l’assenza di utili. Fa eccezione il settore bancario che include peraltro realtà ancora sottovalutate, come le banche greche. E si possono trovare opportunità interessanti tra le small e mid cap slegate dai “fondamentali” macroeconomici del continente.
Nell’azionario continuiamo ad avere una posizione contrarian rispetto a chi considerava -e in molti casi considera ancora – la Cina “non investibile”. Il listino cinese, ad oggi, è il migliore mercato equity del 2025 in termini di performance1. Valutazioni particolarmente compresse sono certamente alla base del rally, ma è oltre questi numeri che si trovano le ragioni più solide a supporto di una tesi costruttiva sulla Cina. Il vantaggio competitivo in diversi settori è frutto di una rivoluzione industriale silenziosa, avvenuta lontano dai radar degli investitori internazionali ed è retto da un costo del capitale tra i più bassi al mondo e da un prezzo dell’energia pari alla metà di quello statunitense: pianificazioni lungimiranti hanno portato a un decennio di investimenti nella rete elettrica e nella produzione di energia, dal carbone al solare, fino al nucleare, mentre politiche commerciali aggressive consentono l’importazione di energia e altre materie prime a buon mercato dalla Russia.
Sono dunque diverse e solide le ragioni che ci spingono a ritenere che quello a cui stiamo assistendo in Cina non sia un fuoco di paglia, ma l’inizio di un bull market strutturale.

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