Mirabaud AM – Perché l’inflazione resta il vero elefante nella stanza per la Fed

Andrew Lake, Chief Investment Officer di Mirabaud Asset Management -

I mercati si aspettano diversi tagli aggressivi dei tassi d’interesse negli Stati Uniti, per mantenere vivo il rally — e questo nonostante la Federal Reserve abbia rivisto al rialzo le proprie previsioni di crescita economica e inflazione per il quarto trimestre. In particolare, dopo il primo taglio di settembre, sono ora previste almeno un’altra o forse due ulteriori riduzioni entro la fine dell’anno. Tuttavia, il percorso non è affatto definito e a un certo punto potrebbe arrivare una delusione, se dovesse stabilizzarsi la disoccupazione. Quest’ultima è infatti il vero indicatore chiave da monitorare: se assisteremo a una riaccelerazione della crescita e quindi dell’occupazione, l’inflazione potrebbe tornare a salire, poiché i consumatori sarebbero maggiormente in grado di assorbire gli aumenti dei prezzi. In altre parole, le buone notizie (migliori condizioni economiche) diventerebbero cattive notizie (minore necessità di tagliare i tassi).

La direzione dell’inflazione è quindi il vero elefante nella stanza. Con le speculazioni continue sull’indipendenza futura della Fed, che deve subire la pressione della Casa Bianca affinché tagli i tassi in modo più aggressivo, e la probabile nomina di un nuovo presidente e forse di uno o due nuovi governatori più allineati a questa visione, esiste un rischio concreto che l’inflazione torni a salire nel 2026. In questo contesto, rimangono aperte diverse questioni: ci sarà un effetto inflazionistico derivante dai dazi? Il mercato sta scontando correttamente questo rischio o assisteremo a un picco ritardato dei prezzi, man mano che le scorte si ridurranno e le aziende trasferiranno finalmente i costi ai consumatori, invece di sacrificare i propri margini? Quali settori industriali saranno più colpiti? E, soprattutto, ai mercati interessa davvero tutto questo?

Questa apparente indifferenza si ritrova ad esempio nel mercato azionario svizzero. Dopo il breve sell-off iniziale di agosto, la borsa è tornata a crescere, sovraperformando l’indice MSCI Europe nell’ultimo mese. Il rialzo è stato guidato dai titoli farmaceutici, come Roche, nonostante i dazi imposti alla Svizzera – i più alti tra i Paesi sviluppati – colpissero proprio quel settore. Questo sembra indicare che i mercati non considerano più rilevante l’effetto dei dazi. Si tratta di ingenuità o di consapevolezza che le aziende si sono già adattate a questa nuova realtà o semplicemente non credono che i dazi resteranno in vigore?

Un altro esempio notevole di questa indifferenza è stata la reazione tiepida degli investitori all’ultimo annuncio del presidente Trump sui dazi del 100% sui farmaci di marca importati. Gli investitori si concentrano infatti sulle esenzioni previste per le aziende con stabilimenti negli Stati Uniti: la maggior parte delle grandi case farmaceutiche (incluse molte società svizzere) dispone già o disporrà presto di impianti di produzione negli USA. A essere più penalizzati saranno quindi i piccoli produttori senza presenza sul territorio statunitense.

Liquidità, liquidità, liquidità. È questa la forza trainante dello slancio positivo dei mercati finanziari, che sta interessando oro, azioni e obbligazioni. La ricerca di rendimento nel frattempo continua incessante, come dimostra l’intensa attività nel mercato delle nuove emissioni high yield, segnale dei flussi di capitali verso il credito. I premi sulle nuove emissioni sono ormai inesistenti, le operazioni vengono ampliate, gli spread restano su minimi storici e le attese di utili migliori alimentano l’ottimismo generale degli investitori, nonostante i livelli elevati dei mercati. Settembre è di solito il mese peggiore per l’azionario statunitense, ma non quest’anno: il mese da poco conclusosi è stato infatti il miglior settembre dal 2010.

Considerando il contesto favorevole in termini di liquidità, i mercati potrebbero restare su livelli elevati ancora per un po’, a meno di uno shock imprevisto. Una recessione appare poco probabile sulla base dei dati pubblicati finora; il vero rischio è una delusione legata al ritmo dei tagli dei tassi d’interesse negli Stati Uniti con occupazione e inflazione che restano i fattori chiave da monitorare.