Credito privato: separare il buono dal cattivo
I recenti fallimenti di Tricolor e First Brands negli Stati Uniti hanno gettato un’ombra sul mercato del credito privato, con commenti pubblici da parte di figure di spicco del mondo finanziario, incluso il monito metaforico su ulteriori perdite di questa asset class da parte del CEO di JPMorgan Jamie Dimon, il quale ha affermato che “probabilmente ci sono altri scarafaggi”. Anche se il credito privato evidentemente implica alcuni rischi, è importante sottolineare la natura idiosincratica delle difficoltà incontrate sia dalle società fallite sia dalla loro principale fonte di finanziamento, ovvero prestiti ampiamente sindacati e veicoli di cartolarizzazione garantiti da attività, non credito privato.
Non sempre è facile distinguere fra le due cose, poiché in genere la definizione di “credito privato” è usata in modo generico e include vari tipi di finanziamento. Tuttavia, i finanziatori privati si distinguono dai comuni partecipanti ai mercati dei prestiti bancari sindacati e delle cartolarizzazioni: essi aspirano a essere il finanziatore principale negli accordi bilaterali che seguono ad accurati processi di due diligence, godendo di ampi diritti di monitoraggio e di un maggiore controllo sull’applicazione delle norme in caso di problematiche, cosa che evidentemente non è successa nei casi First Brands e Tricolor.
Fatte queste premesse, storie come quella di First Brands fanno emergere preoccupazioni reali, come l’allentamento degli standard di sottoscrizione in un contesto caratterizzato da intensi afflussi di capitale e da una forte concorrenza nei segmenti più commoditizzati, il crescente utilizzo dell’ingegneria finanziaria e la prevalenza di covenant di debito più deboli. Fortunatamente, questo scenario non è sistemico e può essere migliorato tramite una selezione disciplinata degli investimenti.
Non si tratta di un fenomeno nuovo. In effetti, come abbiamo spiegato nell’articolo di ottobre 2024 “Evolution in Private Credit’s Golden Age”, il mercato è sempre più polarizzato.
Da un lato ci sono le large cap, con grandi quantità di capitale e forti pressioni per impiegarlo. Dall’altro lato ci sono gestori più piccoli e specializzati, meglio posizionati per prosperare in condizioni di mercato in evoluzione grazie a un approccio più mirato e a maggiore agilità.
Nel complesso, il private credit continua a generare solide performance. I dati degli indici di rendimento del debito privato di Lincoln International, se confrontati con i benchmark dei prestiti leveraged, rivelano non solo rendimenti superiori per il credito privato, ma anche una sovraperformance in costante aumento associata a minore volatilità. Modelli simili sono confermati da altre fonti, come gli indici di Houlihan Lokey, che replicano perlopiù i prestiti diretti senior, il settore più competitivo del mercato. Dal nostro punto di vista, questi trend positivi sono ancora più evidenti in strategie di nicchia specializzate.
L’esigenza di maggiore selettività, inoltre, arriva proprio nel momento in cui gli asset manager, con il sostegno del Presidente degli Stati Uniti, premono per aprire gli investimenti privati al capitale retail. Da un sondaggio condotto il mese scorso da Pitchbook LCD è emerso che tre quarti degli operatori di mercato prevedono una maggior partecipazione al credito privato da parte del segmento retail nei prossimi anni, di cui il 30% considera gli investitori retail come una “nuova importante fonte di capitale”. Ci auguriamo che i nuovi investitori di questa asset class ricevano una consulenza adeguata, evitino strutture non trasparenti e non cedano a promesse di rendimento poco realistiche. A questo proposito potrebbe emergere che le recenti notizie su First Brands e Tricolor in realtà siano state un avvertimento più che mai tempestivo.

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