Lemanik: ancora stimoli monetari e fiscali per evitare la crisi che incombe in Usa
Mentre il ciclo mondiale conferma l’apertura di un rallentamento innescato da un calo della domanda globale e del commercio internazionale, gli Stati Uniti, nonostante un dichiarato + 3,8% di PIL, si apprestano ad avviare l’ulteriore disperato tentativo di salvare la situazione, aggiungendo allo stimolo fiscale anche quello monetario. Tutto questo conferma in pieno tutte le mie valutazioni sulla crisi del modello americano che richiede ormai costantemente politiche reflazionistiche sempre piu’ aggressive per evitare di precipitare in una crisi. E’ infatti preoccupante che tutte le recessioni che abbiamo avuto a partire dal 2000 si sono poi trasformate in una crisi finanziaria, mentre le recessioni pre 2000, pur evidenziando significativi ribassi delle borse, non hanno mai innescato colossali bail out pubblici di sistema e colossali interventi di salvataggio da parte delle Banche centrali. Dal 2010 abbiamo assistito ad una costante politica di stimolo fiscale e monetario inspiegabile in una fase espansiva, confermando dunque che il sistema non è stato piu’ in grado di autosostenersi senza tali stimoli. Ridurre quindi i tassi mentre si fa politica fiscale espansiva è l’ultimo esperimento che rimane per puntellare ulteriormente il sistema, ma che non fa che confermare la crisi del modello economico americano. Nonostante i dati di crescita USA recentemente pubblicati, cresce la convinzione (e la rassegnazione) tra gli operatori fuori dal mainstream che una crisi sia ormai inevitabile e si discute ora, non del se, ma per quanto tempo si puo’ reggere e della dimensione dell’impatto sulle variabili finanziarie e sull’economia. Per quanto riguarda le perplessità sulla reale forza dei dati macro americani, si conferma lo scenario che ormai Cina e Stati Uniti fanno a gara a pubblicare dati politicizzati per dimostrare la forza della loro economia in un contesto di scontro geopolitico inarrestabile.

Ma nel frattempo, la società FICO, il benchmark di riferimento per la misura della qualità del credito al consumo e dei consumatori USA, ha recentemente dichiarato che le revisioni al ribasso dei rating dei consumatori americani viaggiano ad una velocità superiore a quella del 2008. Il meccanismo è stato probabilmente innescato dall’impennata dei tassi di insolvenza sugli Student Loans, che in un paio di mesi hanno raggiunto il livello del 29%, mai registrato nella storia. Un ulteriore fattore di preoccupazione per la tenuta del credito al consumo è l’imminente scadenza della moratoria sui mutui introdotta dall’amministrazione Biden, che si riferisce a circa il 13% dei mutui outstanding e potrebbe portare ad un ulteriore peggioramento della qualità del credito. A questi ultimi avvenimenti, nel mese di settembre si aggiungono i fallimenti di due importanti società USA operative nel credito auto (Tricolor Holding) e nella componentisca auto (First Brands Group). Il problema, oltre al fallimento, è il fatto che Tricolor aveva un rating A+ ed è andata in default in poche ore, scatenando reminiscenze del 2008 tra gli operatori del credito. Quello che emerge da tali fallimenti è che ambedue le società avevano debiti “fuori bilancio” non evidenziati per miliardi di Dollari (esattamente come si faceva prima del 2008). A tal proposito si veda Financial Times, US debt investors raise alarm over lending standards by Eric Platt and Robert Smith (24/09/25). Il fatto che in una settimana due importanti società falliscano e tutte e due evidenzino l’occultamento di debiti fuori bilancio, non fa che confermare anche in questo caso, quello che da tempo racconto sulla qualità dei bilanci della Corporate America, sulla qualità dei rating e sulla qualità del credito speculativo in circolazione (12,5 Trilioni di USD su un PIL di 24,5). Credo che tale importo sia destinato a salire decisamente in caso di peggioramento dell’economia, dato che la qualità del credito è pro ciclica e le sorprese di questi giorni fanno sospettare che altre società, con rating investment grade, possano avere potenzialmente gli stessi problemi. Infatti, il problema adesso è quello di convincere gli investitori che questi sono solo “incidenti circoscritti” e non applicabili all’intero sistema corporate. Un po’ difficile da credere se due default su due (100%) in rapida successione (10gg) evidenziano lo stesso problema di occultamento agli investitori della reale entità del debito. Un ulteriore minaccia riguarda il dibattito in corso in Congresso sul Debt Ceiling, non tanto per il rischio di chiusura del governo e il blocco dell’apparato amministrativo, quanto piuttosto sullo scontro delle spese per il Medicaid sostenute dai democratici e osteggiate dai Repubblicani. Medicaid è un importante supporto finanziario per le famiglie americane non in grado di pagarsi una copertura sanitaria ed un suo mancato rinnovo avrebbe un pesante impatto economico sui consumi. Occorre ricordare che attualmente il 30% del bilancio pubblico USA è dedicato a spesa sociale per circa il 25% della popolazione e tale spesa non puo’ essere tagliata senza procurare un crollo dei consumi e una recessione. Per comprendere quanto sono gonfiati i consumi americani e quanto sono sostenibili, occorre considerare che attualmente il 22% dei consumi interni è finanziato dal credito al consumo, il doppio rispetto ai livelli pre 2008. Ma se dovessimo considerare anche i consumi che vengono sovvenzionati dal bilancio pubblico tramite i sussidi indicati, è probabile che l’attuale percentuale di consumi finanziati sia decisamente superiore al 30%, evidenziando la dimensione di vulnerabilità dell’intero sistema.
E’ abbastanza evidente che le 493 società dell’indice SPX, che evidenziano profitti piatti da almeno tre anni, avrebbero una pesante recessione dei profitti se il modello di crescita sulla domanda finanziata iniziasse a cedere.
Dopo la crisi del 2001 la crescita americana si è inventata un modello di sviluppo basato sul Real Estate finanziato dal debito e dal 2010 siamo passati ad un modello di crescita basato sui consumi finanziati. La sostanziale differenza è che, mentre il debito basato su Real Estate aveva un collaterale reale (ma questo non ha evitato il default del sistema), quello basato sui consumi non ha un collaterale se non il reddito del consumatore. Questo spiega il nervosismo dei mercati quando si hanno dati che evidenziano una debolezza del mercato dell’occupazione e questo è il motivo per il quale l’amministrazione Biden aveva iniziato a “gonfiare” i dati già da tre anni. Il livello di crescita delle insolvenze sul credito al consumo non è compatibile con una crescita economica al 3,8% evidenziata nel recente trimestre.

Un ulteriore complessità riguarda la reale comprensione del “consumer spending”, ulteriore importante dato macro che sorprende sempre per la sua tonicità in un contesto di aumento dei default sul credito e costante caduta dell’indice di fiducia dei consumatori. Per comprendere esattamente la qualità del dato occorre sottolineare che l’inflazione è un fattore di distorsione del dato, poiché la pubblicazione del dato mensile è in termini nominali e non reali. Quindi, in caso di alta inflazione i consumi sembrano piu’ elevati solo perché i prezzi aumentano mentre i volumi probabilmente calano. E’ abbastanza facile per gli uffici di statistica gonfiare il dato reale, per farlo basta sottostimare l’inflazione PCE (Price Consumer Expenditures) che viene usata per calcolare il PIL reale. A titolo di esempio, se i prezzi aumentano del 10% e il PCE è stimato al 3% hai un aumento del consumer spending reale del 7% e il PIL reale sembra nettamente piu’ forte di quello che è veramente. Inoltre, credo che pochi sanno che bollette energetiche, premi assicurativi sanitari, affitti e costi fissi di ogni genere fanno parte del “consumer spending”. Quindi non è chiaro quanto l’aumento dei prezzi delle “mandatory expenses” si sia cannibalizzato il “discretionary spending”. A tale proposito segnalo che i prezzi delle bollette energetiche sono saliti da giugno del 6%, spinti dall’intenso consumo energetico dei Data Center. Per questo motivo potremmo avere dei dati piuttosto gonfiati sul GDP prima di una pesante recessione, come è accaduto prima della crisi del 2000, quando il PIL cresceva nel terzo quarter del 2000 al 3,6% Y/Y, proprio in concomitanza con l’inizio della crisi a Ottobre 2000. Oppure come nel 2008, quando nel primo trimestre di quell’anno il PIL cresceva del 3,4% Y/Y ma la crisi era già iniziata. In ambedue i casi il PIL è diventato negativo solo a crisi già profondamente avviata e dopo almeno due/tre trimestri dal picco espansivo. Quindi rimango molto scettico sui dati come indicatori utili per comprendere l’eventuale punto di svolta e continuo a focalizzare l’attenzione su quello che accade sul credito nel settore driver dell’economia, cioè il credito al consumo. Sia nella crisi del 2000 che in quella del 2008 abbiamo avuto evidenti segnali di deterioramento nel credito cartolarizzato, molto prima della caduta del PIL e l’inizio della recessione. A metà del 1999 hanno iniziato a saltare i crediti cartolarizzati alle aziende operanti nel settore internet mentre all’inizio del 2007 hanno iniziato ad andare in crisi quelli legati al Real Estate. In ogni caso, le ultime due crisi sistemiche sono sempre partite dallo Shadow Banking System, che contiene ora tutte le cartolarizzazioni della bolla di credito generata durante il QE e i tassi a zero.
Un discorso a parte merita l’attuale esplosione del capex su AI e Data Center, che allo stato attuale contribuisce alla crescita del PIL su percentuali che, secondo diverse stime, oscillano tra lo 0,4% e 0,6%. Questo settore è attualmente un driver di crescita che si basa sui massicci investimenti delle Big 5 del settore Tech. Il problema di tale fenomeno, come ho già avuto modo di commentare, è che gli investimenti in AI non hanno al momento un punto di break even in vista. Le stime di OpenAI puntano ad un iniziale ritorno sugli investimenti nel 2035, ma la domanda che sorge spontanea è se i mercati azionari continueranno a premiare investimenti che non prevedono ritorni per un cosi’ lungo periodo di tempo. L’unica cosa per ora certa, è che tale fenomeno ha effetti collaterali positivi per chi vende microprocessori e per chi produce energia per le esigenze di calcolo. Se il capex continuerà a divorare il cash flow delle big tech e il cash flow speso non vedrà un ritorno atteso significativo prima di dieci anni, questo meccanismo potrebbe portare ad un possibile scoppio della bolla speculativa sulla tecnologia americana, indipendentemente da quello che sta accadendo nel credito circolante nello Shadow Banking System. Ha inoltre destato scalpore la richiesta americana alla Corea del Sud di pagare 350 mld di Dollari in cambio di un accordo commerciale. Credo che sia un ulteriore conferma della disperazione nella quale annaspa il sistema USA. E’ abbastanza difficile continuare a credere che tutto questo possa reggere per lungo tempo e continuare a credere che l’andamento degli indici di borsa possa risolvere i problemi strutturali sempre piu’ ingestibili che stiamo cercando di nascondere. In conclusione ritengo che l’indice piu’ attendibile di misurazione del rischio di sistema sia evidenziato dall’andamento dell’Oro e non da quello della borsa.

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