Mondo del lavoro. Secondo Eurostat, oltre metà degli Italiani supera le 40 ore settimanali

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Secondo Eurostat, nel 2024 più di 12 milioni di persone in Italia lavorano oltre i limiti di legge. Un dato che riaccende il dibattito su precarietà, salari e benessere.

In Italia si lavora troppo, e spesso male. È quanto emergono i dati diffusi da Eurostat, secondo cui oltre la metà dei lavoratori italiani supera le 40 ore settimanali previste dai contratti. Secondo le rilevazioni, su più di 23 milioni di italiani fra i 20 e i 64 anni occupati, il 42,8% – circa 9,6 milioni – dichiara di lavorare fino a 44,5 ore alla settimana; un 4,7% (circa 1,1 milioni) lavora tra 45 e 49,5 ore, e un ulteriore 6,9% (circa 1,6 milioni) oltre le 50 ore. In termini assoluti, più di 12,5 milioni di italiani sono dunque coinvolti in settimane lavorative ben più lunghe rispetto a quanto previsto dai contratti contrattuali (la soglia normativa “ideale” è 40 ore).
Oltre ai numeri italiani, Eurostat mette in luce che nel secondo trimestre del 2025 il 10,8% dei lavoratori UE fra 20 e 64 anni (somma di lavoro principale e secondario) supera le 45 ore settimanali, segnale che il problema degli orari eccessivi non è confinato all’Italia, ma il fenomeno è accentuato in Paesi con mercati del lavoro più fragili.

In Italia questo problema assume contorni paradossali: una quantità significativa di individui lavora molto, ma non riesce a tradurre il tempo in sicurezza economica. È il caso dei cosiddetti working poor, persone che, pur avendo un impiego, vivono in condizioni di reddito sotto la soglia di povertà. Secondo dati Istat e ricerche indipendenti, nel 2023 circa l’8,2% dei lavoratori dipendenti risultava in povertà assoluta. Fra gli operai la percentuale è ancora più alta, arrivando al 14,6%. (fonte ANSA)
Altri studi riportano dati analoghi: la Fondazione Adecco segnala che in Italia gli occupati in condizione di working poor sono circa l’11,8%, ben al di sopra della media europea del 9,2%.  Un’indagine del Centro Studi Unimpresa stima inoltre che nel 2024 ci siano stati 6,9 milioni di working poor, circa 285.000 in più rispetto all’anno precedente, con un incremento trainato dai contratti a termine.

Cause strutturali: precarietà e contratti “flessibili”

Una delle cause principali risiede nell’ampio ricorso ai contratti atipici, alle collaborazioni con partita IVA e a forme contrattuali flessibili che sfuggono a controlli rigorosi sull’orario e alle garanzie. Il fenomeno è accentuato nelle regioni meridionali e nei settori dei servizi, dove è più diffusa la frammentazione del lavoro e la presenza di contratti a termine. Il dato europeo che associa l’eccesso di ore (oltre 45) al lavoro combinato (main job + second job) evidenzia come molti lavoratori siano costretti a “sommare impegni” per campare.

In Italia, il dibattito sul salario minimo legale è in parte una risposta a queste fragilità: secondo dati del Rapporto sullo “Stato dei Diritti”, quasi 18,2% dei rapporti di lavoro remunerati con meno di 9 €/h coinvolgerebbe circa 3 milioni di lavoratori – una fascia in cui il rischio di povertà è elevato. Inoltre, in scenario Europeo, nel 2024 il costo orario medio del lavoro nell’UE è stimato in 33,5 €, con l’Italia posizionata al di sotto della media europea nei costi orari lavoro. Il limite dei salari bassi in rapporto alle ore lavorate accresce la frattura tra impegno e rendimento.

Disparità di genere, area geografica e istruzione

Il fenomeno non è omogeneo: donne, residenti nel Sud, lavoratori con basso titolo di studio e chi ha contratti temporanei mostrano vulnerabilità maggiori.

Secondo il Rapporto Istat-Égalité, il 26,6% delle donne occupate rientra nella categoria dei “low-paid”, contro il 16,8% degli uomini. Gli stranieri presentano percentuali ancora più elevate: il 35,2% contro il 19,3% degli italiani. I contratti temporanei mostrano un’incidenza sui redditi bassi pari al 46,6% contro l’11,6% degli assunti con contratti stabili. In termini territoriali, le regioni meridionali (e le province interne in particolare) registrano tassi più elevati di precarietà, disoccupazione e basso reddito, contribuendo a creare un circolo vizioso che spinge chi può a migrare verso il Nord o l’estero.

Produttività debole e stagnazione salariale

Colpisce che, nonostante l’intensificazione del lavoro, la produttività del lavoro in Italia stenti a crescere. Secondo i dati Istat per il periodo 1995–2023, il tasso medio annuo di crescita della produttività del lavoro è stato solo dello 0,4%.
Non solo: fonti indipendenti mostrano che negli ultimi anni l’indice di produttività italiana, rispetto all’area euro, si è addirittura indebolito. Ciò significa che l’aumento dell’impegno (ore lavorate) non si traduce in aumento proporzionale di valore aggiunto.

La combinazione di bassa produttività e salari stagnanti rende difficile che un lavoratore, per quanto “ipertrofico” nel numero di ore, possa migliorare concretamente il proprio tenore di vita.

Confronto con altri paesi europei

Nel contesto europeo, l’Italia appare in una posizione intermedia: se da un lato l’eccesso di ore è più marcato rispetto a Paesi con contratti più regolati, dall’altro la differenza rispetto ad altri Stati con mercato del lavoro flessibile (come alcuni dell’Europa centrale) è attenuata.
Eurostat segnala che nel 2023 la lunghezza media della settimana lavorativa nell’UE (ore “usual” e “actual”) era 36,1 ore, con variazioni molto ampie fra Paesi. 
Ma l’Italia paga il prezzo di un modello a bassa intensità retributiva. In Paesi dove il salario minimo è più alto o dove il welfare accompagna il lavoro con redistribuzione, la pressione sull’orario è minore.