Donald Trump e la tassazione della ricchezza: filosofia e precedenti. Si parlerà mai di patrimoniale negli USA?
Donald Trump ha già dato segnali molto chiari, sia durante il suo primo mandato sia nella campagna 2024-2025, sul suo orientamento in materia fiscale e patrimoniale. Vediamo come si comporterebbe realisticamente di fronte all’introduzione o all’ipotesi di una tassa patrimoniale, negli Stati Uniti o in Europa, e quali effetti potrebbero derivarne.

Nell’articolo pubblicato ieri, sabato 8 novembre (qui il link), abbiamo discusso vantaggi potenziali e ostacoli concreti per l’applicazione della patrimoniale in Italia e in Europa. Ora ipotizziamo un’altamente improbabile tassazione patrimoniale negli USA sotto il governo Trump.
Durante il suo primo mandato (2017-2021) ha perseguito la direzione opposta: ha tagliato le imposte societarie dal 35% al 21%; ha ridotto la pressione fiscale sui redditi alti e sui dividendi; ha favorito il rimpatrio di capitali con aliquote agevolate; e ha dichiarato apertamente che «il successo va premiato, non punito».
Sul piano ideologico, Trump considera la tassazione patrimoniale una forma di esproprio morale, un messaggio che risuona fortemente presso la sua base elettorale imprenditoriale e anti-establishment. Per lui, la ricchezza privata è motore di crescita e simbolo di libertà personale, non qualcosa da redistribuire.
Il peso dell’Europa nelle decisioni americane
Se l’Unione Europea o Paesi come l’Italia o la Francia introducessero una patrimoniale “di vertice”, Trump reagirebbe probabilmente su due fronti.
Retorico e politico: la presenterebbe come esempio di “decadenza europea”, un segno di governi che tassano il successo per sostenere “burocrazie inefficienti”. La sua comunicazione e quella dei suoi consiglieri economici, come Larry Kudlow tenderebbe a usare casi europei per dire: «Ecco dove porta il socialismo: fuga di capitali e disoccupazione giovanile».
Competitivo e geopolitico: sul piano strategico, coglierebbe l’occasione per rafforzare l’attrattività degli Stati Uniti come paradiso fiscale per gli investimenti globali. Potrebbe lanciare agevolazioni fiscali mirate per chi trasferisce capitali o sedi d’impresa negli USA, trasformando la patrimoniale europea in un vantaggio competitivo americano.
In altre parole: se l’Europa tassasse i patrimoni, Trump aprirebbe la porta a chi vuole spostarli.
Possibili conseguenze di una “dottrina Trump” nel contesto attuale
Competizione fiscale globale più accesa: Trump promuoverebbe un modello di fiscalità leggera e di deregolamentazione per attirare capitali europei e asiatici, mettendo in difficoltà l’OCSE e l’accordo sul global minimum tax del 15%.
Gli Stati Uniti, sotto la sua guida, potrebbero anche sospendere la cooperazione fiscale multilaterale, indebolendo i meccanismi di scambio dati sui grandi patrimoni offshore.
Pressione su borse e mercati europei: se gli USA diventassero di nuovo rifugio fiscale e normativo, si avrebbe una migrazione di capitali verso Wall Street, con riflessi negativi sui listini europei e un rafforzamento del dollaro.
La Financial Times e il Wall Street Journal hanno già scritto che gli investitori vedono in Trump “una certezza di continuità per il capitale privato”, ma anche “un rischio per l’equilibrio dei mercati globali”.
Retorica pro-classe media, ma anti-tasse reali: nei comizi, Trump continuerebbe a dire che “difende i lavoratori”, ma il suo approccio resta quello del trickle-down economics: aiutare i grandi investitori nella speranza che i benefici “gocciolino” verso il basso.
È un modello che trova consenso politico, ma che la letteratura economica contemporanea (da Stiglitz a Krugman) considera iniquo e inefficiente nel lungo periodo.
Come commentano i media internazionali
The New York Times scrive che la linea fiscale trumpiana “accentua la concentrazione di ricchezza e riduce la mobilità sociale, ma trova consenso perché promette libertà economica e meno Stato.”
Bloomberg prevede che, se tornasse alla Casa Bianca, Trump “rimetterebbe in discussione gli accordi fiscali internazionali dell’OCSE, cancellando anni di progressi sulla trasparenza dei capitali.”
The Economist, in un editoriale di ottobre 2025, ha osservato che “l’America di Trump diverrebbe la meta naturale per chi in Europa teme le patrimoniali o le restrizioni ESG.”
Se Trump dovesse affrontare l’introduzione di una tassa patrimoniale nell’ambito degli Stati Uniti (ipotesi del tutto impossibile a oggi) o semplicemente come fenomeno internazionale la combatterebbe con ogni mezzo politico e simbolico.
Ne farebbe una bandiera di libertà economica, ma anche un potente strumento di competizione geopolitica contro l’Europa.
Come dicevamo nell’articolo pubblicato ieri, per i mercati questo significherebbe più volatilità sui titoli europei, spostamento di capitali verso gli USA, rallentamento dei progetti di cooperazione fiscale globale.

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