Donald Trump e la tassazione della ricchezza: filosofia e precedenti. Si parlerà mai di patrimoniale negli USA?

-

Donald Trump ha già dato segnali molto chiari, sia durante il suo primo mandato sia nella campagna 2024-2025, sul suo orientamento in materia fiscale e patrimoniale. Vediamo come si comporterebbe realisticamente di fronte all’introduzione o all’ipotesi di una tassa patrimoniale, negli Stati Uniti o in Europa, e quali effetti potrebbero derivarne.

Nell’articolo pubblicato ieri, sabato 8 novembre (qui il link), abbiamo discusso vantaggi potenziali e ostacoli concreti per l’applicazione della patrimoniale in Italia e in Europa. Ora ipotizziamo un’altamente improbabile tassazione patrimoniale negli USA sotto il governo Trump.

Tassazione della ricchezza: due secoli di dibattito negli Stati Uniti tra uguaglianza e libertà economica

Negli Stati Uniti la tassazione patrimoniale è un tema che attraversa oltre due secoli di storia senza mai tradursi in una vera wealth tax federale. Dalla metà dell’Ottocento a oggi, il Paese ha sempre preferito strumenti indiretti di tassazione della ricchezza, riflettendo la tensione costante tra equità sociale e tutela della proprietà privata.

Le prime forme di imposta patrimoniale nascono a livello locale con le property tax, tuttora in vigore: tasse sul valore degli immobili che finanziano scuole e servizi municipali. È il primo e unico esempio di patrimoniale stabile negli Stati Uniti. A livello federale, l’introduzione del XVI emendamento nel 1913, che autorizza l’imposta sul reddito, segna l’avvio di un sistema progressivo. Poco dopo arrivano anche le estate tax e gift tax, le imposte su eredità e donazioni, pensate per frenare la concentrazione della ricchezza nelle mani di poche famiglie.

Nel dopoguerra, durante l’era del New Deal e fino agli anni Settanta, il sistema fiscale americano si basa su un’idea di redistribuzione: le aliquote massime sul reddito superano l’80%, e la tassazione successoria è tra le più alte al mondo. Ma con Ronald Reagan, negli anni Ottanta, l’approccio cambia radicalmente. La dottrina del “trickle-down economics” sostiene che ridurre le tasse ai più ricchi favorisca la crescita. Le aliquote calano, la tassazione ereditaria si riduce e l’idea stessa di patrimoniale diventa politicamente un tabù.

Thomas Piketty e Paul Krugman

La crisi finanziaria del 2008 riporta però il tema al centro del dibattito. Economisti come Thomas Piketty e Paul Krugman sottolineano come l’aumento delle disuguaglianze metta in crisi la coesione sociale. Da qui le proposte di Elizabeth Warren e Bernie Sanders, che tra il 2019 e il 2020 avanzano l’idea di una tassa annuale del 2-8% sui patrimoni superiori a 50 milioni di dollari. Il New York Times la definisce “un passo necessario per correggere le distorsioni del capitalismo americano”, mentre il Wall Street Journal la critica come “una tassa sulla produttività che punisce l’imprenditorialità”.

Le principali obiezioni sono di natura tecnica e costituzionale. La Costituzione americana vieta imposte dirette non proporzionali tra gli Stati, e valutare annualmente asset compless come aziende private od opere d’arte appare logisticamente oneroso. Inoltre, secondo la Tax Foundation, una wealth tax rischierebbe di ridurre gli investimenti domestici e spingere i grandi patrimoni all’estero.

Oggi, negli Stati Uniti, la ricchezza continua a essere tassata solo quando viene trasferita o realizzata, non quando si accumula. Tuttavia, il tema resta vivo, alimentato dal confronto tra chi chiede un riequilibrio della giustizia fiscale e chi difende la libertà economica come fondamento del modello americano.

In sintesi, due secoli di dibattito dimostrano che negli Stati Uniti la tassazione patrimoniale non è solo una questione economica, ma un nodo identitario: tra la promessa di uguaglianza e l’orgoglio di un Paese nato per difendere la proprietà privata.

Trump e la tassazione patrimoniale

Trump è sempre stato un oppositore radicale di qualsiasi forma di wealth tax. Già nel 2019, quando senatrici come Elizabeth Warren e Bernie Sanders proposero una tassa sui grandi patrimoni, Trump la definì «una follia socialista» e «un disincentivo all’imprenditorialità americana».

Durante il suo primo mandato (2017-2021) ha perseguito la direzione opposta: ha tagliato le imposte societarie dal 35% al 21%; ha ridotto la pressione fiscale sui redditi alti e sui dividendi; ha favorito il rimpatrio di capitali con aliquote agevolate; e ha dichiarato apertamente che «il successo va premiato, non punito».

Sul piano ideologico, Trump considera la tassazione patrimoniale una forma di esproprio morale, un messaggio che risuona fortemente presso la sua base elettorale imprenditoriale e anti-establishment. Per lui, la ricchezza privata è motore di crescita e simbolo di libertà personale, non qualcosa da redistribuire.

Il peso dell’Europa nelle decisioni americane

Se l’Unione Europea o Paesi come l’Italia o la Francia introducessero una patrimoniale “di vertice”, Trump reagirebbe probabilmente su due fronti.
Retorico e politico: la presenterebbe come esempio di “decadenza europea”, un segno di governi che tassano il successo per sostenere “burocrazie inefficienti”. La sua comunicazione e quella dei suoi consiglieri economici, come Larry Kudlow tenderebbe a usare casi europei per dire: «Ecco dove porta il socialismo: fuga di capitali e disoccupazione giovanile».
Competitivo e geopolitico: sul piano strategico, coglierebbe l’occasione per rafforzare l’attrattività degli Stati Uniti come paradiso fiscale per gli investimenti globali. Potrebbe lanciare agevolazioni fiscali mirate per chi trasferisce capitali o sedi d’impresa negli USA, trasformando la patrimoniale europea in un vantaggio competitivo americano.

In altre parole: se l’Europa tassasse i patrimoni, Trump aprirebbe la porta a chi vuole spostarli.

Possibili conseguenze di una “dottrina Trump” nel contesto attuale

Competizione fiscale globale più accesa: Trump promuoverebbe un modello di fiscalità leggera e di deregolamentazione per attirare capitali europei e asiatici, mettendo in difficoltà l’OCSE e l’accordo sul global minimum tax del 15%.
Gli Stati Uniti, sotto la sua guida, potrebbero anche sospendere la cooperazione fiscale multilaterale, indebolendo i meccanismi di scambio dati sui grandi patrimoni offshore.
Pressione su borse e mercati europei: se gli USA diventassero di nuovo rifugio fiscale e normativo, si avrebbe una migrazione di capitali verso Wall Street, con riflessi negativi sui listini europei e un rafforzamento del dollaro.
La Financial Times e il Wall Street Journal hanno già scritto che gli investitori vedono in Trump “una certezza di continuità per il capitale privato”, ma anche “un rischio per l’equilibrio dei mercati globali”.
Retorica pro-classe media, ma anti-tasse reali: nei comizi, Trump continuerebbe a dire che “difende i lavoratori”, ma il suo approccio resta quello del trickle-down economics: aiutare i grandi investitori nella speranza che i benefici “gocciolino” verso il basso.
È un modello che trova consenso politico, ma che la letteratura economica contemporanea (da Stiglitz a Krugman) considera iniquo e inefficiente nel lungo periodo.

Come commentano i media internazionali

The New York Times scrive che la linea fiscale trumpiana “accentua la concentrazione di ricchezza e riduce la mobilità sociale, ma trova consenso perché promette libertà economica e meno Stato.”
Bloomberg prevede che, se tornasse alla Casa Bianca, Trump “rimetterebbe in discussione gli accordi fiscali internazionali dell’OCSE, cancellando anni di progressi sulla trasparenza dei capitali.”
The Economist, in un editoriale di ottobre 2025, ha osservato che “l’America di Trump diverrebbe la meta naturale per chi in Europa teme le patrimoniali o le restrizioni ESG.”

Se Trump dovesse affrontare l’introduzione di una tassa patrimoniale nell’ambito degli Stati Uniti (ipotesi del tutto impossibile a oggi) o semplicemente come fenomeno internazionale la combatterebbe con ogni mezzo politico e simbolico.
Ne farebbe una bandiera di libertà economica, ma anche un potente strumento di competizione geopolitica contro l’Europa.
Come dicevamo nell’articolo pubblicato ieri, per i mercati questo significherebbe più volatilità sui titoli europei, spostamento di capitali verso gli USA, rallentamento dei progetti di cooperazione fiscale globale.