Il dibattito sulla tassa patrimoniale nella letteratura economico-finanziaria. Che cosa fanno gli altri Paesi?
Nell’ultimo decennio la tassa patrimoniale, cioè un’imposta straordinaria sul patrimonio netto degli individui (immobili, azioni, liquidità, altri beni) è tornata al centro del dibattito accademico e politico, soprattutto in un contesto di aumentata disuguaglianza, elevato debito pubblico e stagnazione della crescita economica. Una recente revisione sistematica della letteratura evidenzia tre grandi aree d’analisi: modalità di attuazione (implementation), effetti economici (effects) e comportamenti dei contribuenti (behavioural responses).

Vantaggi potenziali e ostacoli concreti
Vantaggi: la tassa patrimoniale è percepita come più equa nei confronti della capacità contributiva, può ridurre la concentrazione di ricchezza e generare risorse aggiuntive per investimenti pubblici in infrastrutture, sanità e transizione verde.
Criticità: molte analisi sottolineano difficoltà amministrative (valutazione del patrimonio, evasione, doppia imposizione), possibili effetti negativi su investimento e crescita, il rischio di fuga di capitali e di competitività attenuata.
Si tratta dunque di uno strumento che nella teoria appare promettente per correggere squilibri, ma nella pratica incontra ostacoli importanti da gestire con attenzione.
Commenti della stampa in Italia
In Italia la questione della tassa patrimoniale è viva e controversa. Studi recenti mostrano che il sistema fiscale nazionale favorisce le ricchezze più elevate: una ricerca del 2024 pubblicata da Reuters evidenzia che il 7 % più ricco della popolazione paga proporzionalmente meno imposte rispetto ai lavoratori della fascia media.
Un sondaggio del 2021 condotto da CSEF su 2.400 italiani rileva che la tassazione della ricchezza è vissuta come sgradita quasi al pari di quella sul reddito, soprattutto se riguarda la fase “potenzialmente ereditabile”.
D’altro campo, le analisi economiche italiane (ad esempio del Laboratorio Economico Milano-LEP dell’Università Milano-Bicocca) suggeriscono che l’introduzione di una tassa patrimoniale, applicata ai patrimoni oltre una certa soglia, potrebbe contribuire a rendere il sistema più progressivo e ridurre la regressività fiscale.
I media italiani segnalano cautela: Il Sole 24 Ore e La Repubblica sottolineano che, in un Paese con elevato debito pubblico, bassa crescita e forte evasione, l’attuazione di una tassa patrimoniale va concepita con attenzione per non provocare effetti indesiderati (fuga di capitali, calo degli investimenti) e per garantire che sia accompagnata da riforme strutturali.
Commenti della stampa internazionale
All’estero il tema suscita un’attenzione crescente. Su Le Monde è stato pubblicato a metà 2024 un editoriale che evidenzia come i miliardari pagano in media solo circa lo 0,3 % del loro patrimonio in imposte, e sostiene che un’imposta patrimoniale dello 0,5-2 % potrebbe raccogliere centinaia di miliardi per lo Stato pur essendo “modesta” rispetto alla loro ricchezza.
Il premio Nobel Joseph Stiglitz ha espresso sostegno per una tassa patrimoniale in Francia (la cosiddetta “taxe Zucman” su patrimoni sopra i 100 milioni di euro), definendola «conservatrice, non radicale, un tasso del 2 % è come un’imposta sul reddito del 20 %».
In un altro caso The Guardian ha riportato che oltre 250 persone detentrici di patrimoni estremamente importanti, riunite al forum di Davos, hanno chiesto volontariamente più tasse sui patrimoni in un appello pubblico intitolato “Tax our wealth”.
Negli Stati Uniti, sebbene non vi sia una tassa patrimoniale federale generalizzata, quotidiani come The New York Times e The Wall Street Journal hanno discusso piani di “billionaire tax” durante l’amministrazione Joe Biden, riflettendo il crescente impatto politico dell’ineguaglianza economica.
Tre punti centrali
Alla luce delle analisi, mi pare utile evidenziare tre punti centrali.
La tassa patrimoniale è più un segnale che un semplice strumento fiscale: serve a comunicare che lo Stato chiede una maggiore partecipazione da parte dei più ricchi, proprio in un’epoca in cui la fiducia nel sistema è messa alla prova dall’ineguaglianza.
L’attuazione è cruciale: senza una buona valutazione del patrimonio, senza misure anticorruzione ed evasione e senza predisporre transizioni graduali, la tassa rischia di restare inefficace o controproducente (fuga di capitali, riduzione investimenti, distorsioni).
Il contesto importa moltissimo: in Paesi con scarsa crescita, grande debito e elevata evasione (come l’Italia), la tassa patrimoniale può avere senso, ma andrebbe accompagnata da riforme fiscali complessive, trasparenza e semplificazioni. In economie più robuste, il rischio della fuga dei capitali è inferiore, ma va comunque valutato.
In conclusione, la tassa patrimoniale, pur non essendo una panacea, può diventare una componente significativa di una strategia fiscale più equa e sostenibile, ma non può sostituire la crescita, l’innovazione e una base fiscale stabile.
I Paesi che l’hanno adottata… poi abolita
Diversi paesi del Nord avevano una patrimoniale e l’hanno abolita tra anni ’90 e 2000. La motivazione ricorrente è ol costo amministrativo alto per valutare correttamente i patrimoni; ma non basta, anche la facilità di spostare gli asset finanziari rispetto alla tassa. Infine, il timore di perdita di attrattività per capitali e imprenditori.
Questi Paesi però hanno reagito con strategie molto semplici che si dono rivelate abbastanza efficaci: una forte tassazione successoria, un’imposizione immobiliare locale ben strutturata e, soprattutto, un’anagrafe patrimoniale molto precisa (che è poi il vero punto di forza).
Gli Stati Uniti
Ci sarebbe molto da dire sulle politiche statunitensi del passato, ma la presenza di Donald Trump ai vertici del Paese rende impossibile basarsi sulla letteratura esistente per interpretare possibili mosse future. Su questo argomento torneremo comunque a breve con un approfondimento, ovviamente a fini accedemici e non previsionali.
Un primo commento si può fare già oggi: se Trump dovesse affrontare l’introduzione di una tassa patrimoniale, negli Stati Uniti o come fenomeno internazionale, la combatterebbe con ogni mezzo politico e simbolico. Ne farebbe una bandiera di libertà economica, ma anche un potente strumento di competizione geopolitica contro l’Europa.
Per i mercati, questo significherebbe più volatilità sui titoli europei, spostamento di capitali verso gli USA, rallentamento dei progetti di cooperazione fiscale globale.
Germania: la grande assente
La Germania non ha una vera patrimoniale annuale federale. E questo è sempre l’esempio che gli ambienti più business-friendly in Italia e all’estero citano: “Se non la fa Berlino, perché dovremmo farla noi?”. Però la Germania ha una forte imposta immobiliare locale (che sta riformando), un sistema molto rigido di trasparenza dei beni e usa il fisco più per stabilità che per redistribuzione spettacolare.
Messaggio implicito tedesco: meglio una base imponibile ampia e certa che una tassa simbolica e litigiosa.
Lezione per l’Italia: se non abbiamo banche dati patrimoniali aggiornate e coordinate, la patrimoniale rischia di essere o ingiusta (colpisce chi è più trasparente) o inefficace.

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