INVESCO – Il paradosso dell’abbondanza
L’economia globale ha vissuto, nel suo passato recente, un’era paragonabile a una festa barocca: liquidità, tassi a zero, stimoli fiscali e monetari scorrevano nelle economie come il vino in un banchetto di Rubens. Le banche centrali riempivano i calici, i governi versavano generosamente, gli investitori brindavano. Eppure, come dopo ogni banchetto troppo lungo, è arrivata la sazietà. Inflazione, inasprimento monetario, crescita rallentata, produttività che ristagna, mercati saturi. Il paradosso è antico quanto la pittura: ciò che doveva nutrire, ora sembra soffocare.
In macroeconomia, il Paradox of Plenty (o Resource Curse), definito dall’economista Richard Auty nel 1993, descrive un fenomeno abbastanza controintuitivo: i Paesi più ricchi di risorse naturali (petrolio, gas, minerali) crescono spesso meno di quelli che ne sono poveri.
L’eccesso di rendite tende a distorcere l’economia: alimenta la dipendenza, riduce l’innovazione, incoraggia la corruzione e, nel lungo periodo, erode la produttività.
Un esempio classico è la cosiddetta “Dutch disease”, osservata nei Paesi Bassi negli anni ’70, quando l’abbondanza di gas naturale fece apprezzare la valuta e penalizzò l’industria manifatturiera.
Settori diversi, motivi differenti, ma la lezione è la stessa: che si tratti di petrolio, di stimoli monetari o fiscali, o semplicemente di informazioni, l’abbondanza tende a disinnescare la tensione creativa che alimenta il progresso. Nelle tele barocche il pieno invade ogni spazio; in economia, il troppo finisce per cancellare il contrasto, la luce, la profondità.
I mercati, oggi, sembrano vivere la stessa condizione delle tele settecentesche: un eccesso di colore, di luce, di materia. Gli anni dell’espansione monetaria e dei tassi a zero hanno lasciato in eredità un paesaggio saturo. La crescita globale è debole, i margini industriali compressi e l’entusiasmo dell’epoca dei rendimenti facili ha ceduto il passo a una forma di apatia collettiva. L’inflazione, pur in ritirata, non è scomparsa; i tassi, pur più alti, non frenano del tutto la domanda. Ci troviamo in quella che molti economisti chiamano “zona grigia” del ciclo: né euforia né crisi, ma sospensione. Le banche centrali, dopo anni di stimoli, si muovono ora con passo misurato: un eccesso di “cura” rischierebbe di generare nuovi squilibri.
Le imprese si confrontano con una domanda incerta, gli Stati con margini fiscali limitati, gli investitori con portafogli ancora ricchi ma meno dinamici. Non manca la liquidità, manca – forse – il desiderio di usarla.
È il paradosso di un sistema in cui il capitale non è più motore ma zavorra: abbondante, ma immobile.
L’attenzione si sposta così sulla qualità: sulla selezione dei modelli di business sostenibili nel tempo, delle aziende con pricing power, dei settori che innovano davvero.
Il 2025 si avvia a chiudersi con crescita fragile, multipli in risalita e volatilità contenuta ma latente. L’Europa mostra segnali di resilienza, sostenuta da valutazioni ancora attraenti e da una politica industriale più assertiva. Gli Stati Uniti restano la locomotiva, ma con un traino meno brillante; la Cina alterna slanci e frenate, mentre l’incertezza globale resta tanto geopolitica quanto macroeconomica.
Dopo anni di eccessi, la sfida non è produrre di più, ma dare valore a ciò che già c’è. L’abbondanza ci insegna che il troppo genera inerzia, che la crescita non si misura solo nei numeri, ma nella capacità di rigenerarsi. I mercati entrano ora in una fase diversa, in cui la liquidità non basta più a creare movimento: servono idee, disciplina, tempo. Se il “paradosso dell’abbondanza” lascia un insegnamento, è che la prosperità duratura non nasce dall’espansione, ma dall’equilibrio tra desiderio e limite.

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Mente e denaro
Sala Stampa