Tassa patrimoniale: Europa e Stati Uniti a confronto tra equità e libertà. Distribuire la ricchezza o frenare gli investimenti?

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Della tassa patrimoniale, tornata al centro del dibattito internazionale, abbiamo parlato in due articoli durante il weekend (qui i link a sabato e a domenica) tra l’esigenza di redistribuire la ricchezza e il timore di frenare gli investimenti. Riprendiamo i concetti principali.

Mentre l’Europa consolida le proprie esperienze, gli Stati Uniti restano cauti, difendendo l’idea che la ricchezza privata sia frutto del merito individuale: le imposte sui patrimoni si manifestano in forme indirette, come property tax sugli immobili, estate tax sulle successioni e capital gains tax. Ma non in una tassa annuale sulla ricchezza complessiva.

In Europa, i modelli di tassazione patrimoniale sono consolidati. Francia, Spagna e Norvegia continuano ad applicare forme di imposta sul patrimonio netto, con aliquote progressive e soglie di esenzione elevate. L’Impôt sur la fortune immobilière francese, ad esempio, colpisce soltanto i beni immobiliari di valore superiore a 1,3 milioni di euro, mentre in Spagna la tassa raggiunge il 3,5% e ha garantito oltre 1,3 miliardi di gettito nel 2023. Ma non mancano gli effetti collaterali: secondo Le Monde Économie, l’imposta francese sulla ricchezza ha spinto migliaia di contribuenti facoltosi a trasferirsi all’estero prima della riforma del 2018.

Per quanto riguarda l’Italia, chi non ricorda la notte tra il 9 e il 10 luglio 1992 quando il governo guidato da Giuliano Amato applicò una misura straordinaria dalla sera alla mattina, rimasta nella memoria collettiva come il simbolo di una crisi economica improvvisa e drammatica.

L’Italia era nel pieno di una gravissima crisi valutaria e finanziaria: la lira era sotto pressione nei confronti del marco tedesco, il debito pubblico aveva superato il 105% del PIL (allora sembrava troppo…) e il deficit era vicino al 10%. L’obiettivo immediato del governo era evitare il collasso della moneta e mantenere l’Italia all’interno del Sistema Monetario Europeo (SME). Fu imposto un prelievo forzoso del 6 per mille (0,6%) su tutti i depositi bancari, postali e titoli custoditi presso istituti finanziari, calcolato sulla giacenza al 9 luglio 1992. Il prelievo fu automatico e retroattivo: gli istituti bancari furono obbligati a trattenere la somma direttamente dai conti correnti nella notte, senza preavviso ai correntisti.

Il prelievo forzoso del 1992 fu un unicum nella storia repubblicana italiana. Nonostante l’effetto immediato sul deficit, non risolse i problemi strutturali: due mesi dopo la lira fu comunque costretta a uscire dallo SME e venne svalutata del 30%. Per aggirare il problema, nel gennaio 1993 fu varata l’ICI, tassa patrimoniale locale permanente, calcolata sul valore catastale degli immobili. Il Sole 24 Ore la definì all’epoca “una patrimoniale in miniatura, stabile e visibile”, perché colpiva il possesso del bene, non il reddito prodotto. Anche oggi molti economisti (tra cui Carlo Cottarelli e Tito Boeri) considerano l’IMU una patrimoniale permanente, anche se non viene chiamata così per evitare l’associazione con il prelievo forzoso del 1992.

Gli studi dell’OCSE

Sul piano economico, gli studi dell’OCSE confermano che una tassa patrimoniale moderata può favorire la redistribuzione senza compromettere la crescita, purché le aliquote restino contenute e l’amministrazione fiscale efficiente. Ma la fiducia resta la variabile decisiva. “Senza la percezione di equità e di un uso produttivo del gettito, la patrimoniale rischia di diventare una misura simbolica, più ideologica che strutturale”, ha osservato Il Sole 24 Ore.

Il New York Times sintetizza il nodo politico: “Gli americani accettano alte tasse sul reddito ma respingono quelle sulla ricchezza, perché il patrimonio è percepito come libertà”.
In Europa, invece, la crescente disuguaglianza spinge molti governi a riscoprire la tassazione della ricchezza come strumento di coesione. Come ha scritto The Economist, “il problema non è tassare la ricchezza, ma farlo in modo intelligente: legando la fiscalità all’equità, alla trasparenza e alla fiducia”.

Due visioni opposte, dunque, ma destinate a incrociarsi di nuovo. Perché, in un’economia globale sempre più concentrata nelle mani di pochi, la questione non è più se tassare la ricchezza, ma come farlo senza compromettere la fiducia e la libertà su cui si regge il sistema economico stesso.

Tassa patrimoniale: rischi e opportunità nella fase di attuazione

L’attuazione di una tassa patrimoniale rappresenta una delle sfide fiscali più complesse dei sistemi economici moderni. Se da un lato offre la possibilità di redistribuire la ricchezza e finanziare la spesa pubblica in modo progressivo, dall’altro rischia di generare fughe di capitali, distorsioni sugli investimenti e difficoltà amministrative.
Come ha osservato il Financial Times (aprile 2025), “la tassa patrimoniale non fallisce per principio, ma per implementazione: serve un equilibrio tra efficienza e giustizia fiscale”.

Opportunità: equità, gettito e modernizzazione fiscale

Sul fronte delle opportunità, la patrimoniale è considerata da molti economisti una leva redistributiva capace di ridurre la concentrazione di ricchezza.
Secondo l’OECD Wealth Taxation Report 2024, un’imposta moderata, con aliquote comprese tra lo 0,5% e l’1,5%, può generare gettiti significativi senza deprimere la crescita economica, se accompagnata da un sistema di monitoraggio digitale dei patrimoni.
In Italia, uno studio de Il Sole 24 Ore ha stimato che una tassa sullo 0,8% dei patrimoni superiori a 1 milione di euro potrebbe portare alle casse pubbliche circa 15 miliardi di euro l’anno, con effetti redistributivi più equi rispetto all’aumento dell’IVA o dell’IRPEF.

Un’altra opportunità è di tipo tecnologico e amministrativo. L’introduzione di una patrimoniale impone la creazione di banche dati integrate, in grado di incrociare conti correnti, immobili, azioni e fondi. Questo processo, come evidenziato dal Le Monde Économie, potrebbe spingere verso una modernizzazione strutturale del sistema fiscale europeo, riducendo l’evasione e migliorando la trasparenza.
Infine, la patrimoniale può diventare uno strumento anti-ciclico: un modo per finanziare politiche pubbliche in periodi di crisi senza aumentare il debito.

Rischi: elusione, mobilità e impatto sugli investimenti

Ma i rischi sono concreti. Le esperienze di Francia e Spagna dimostrano che una tassa patrimoniale mal calibrata può provocare fughe di capitali e spostamenti di residenza fiscale. Tra il 2000 e il 2017, oltre 10.000 contribuenti francesi ad alta ricchezza hanno lasciato il Paese a causa della vecchia ISF Impôt De Solidarité Sur La Fortune: un fenomeno che ha portato Parigi a sostituirla nel 2018 con l’attuale Impôt sur la fortune immobilière (IFI), limitata agli immobili di lusso. “Il rischio – scrive The Economist – è che la tassa sulla ricchezza, se isolata e mal disegnata, finisca per erodere la base imponibile che intende allargare”.

Negli Stati Uniti, le simulazioni condotte dal Tax Policy Center e dalla Brookings Institution nel 2024 hanno segnalato problemi simili: una Wealth Tax federale al 3% sui patrimoni oltre i 100 milioni di dollari porterebbe sì a un gettito teorico di oltre 200 miliardi l’anno, ma con rischi di illiquidità per chi detiene asset non facilmente monetizzabili (start-up, terreni, opere d’arte).
Il Wall Street Journal ha osservato che “il prelievo annuale sul patrimonio finirebbe per penalizzare l’innovazione tecnologica e il capitale di rischio, colpendo più le imprese emergenti che i grandi conglomerati consolidati”.

Altro nodo critico è la valutazione dei beni: stimare con precisione il valore reale di immobili, azioni non quotate e patrimoni complessi richiede strumenti tecnici e giuridici avanzati, spesso non omogenei nei vari Stati. L’assenza di standard comuni espone i sistemi fiscali al rischio di contenziosi e arbitraggi.

Una questione di fiducia

La vera discriminante tra successo e fallimento, come sottolinea il New York Times, resta la fiducia dei contribuenti. Dove le istituzioni sono percepite come credibili e trasparenti, come nei Paesi nordici, la tassa patrimoniale è accettata come un dovere civico; dove invece prevale la sfiducia, come in Italia o negli Stati Uniti, rischia di essere interpretata come una punizione per il risparmio.

In sintesi, la patrimoniale è una riforma ad alto contenuto politico, che può ridurre le disuguaglianze ma solo se inserita in un sistema coerente e sostenuto da consenso sociale.
Come ha scritto The Economist nel numero di luglio 2025: “Tassare la ricchezza non è una questione di ideologia, ma di ingegneria fiscale. Se l’architettura è solida, la casa regge. Altrimenti, crolla con il primo vento politico”.

Tassa patrimoniale e rischio di doppia imposizione: il nodo più controverso

Uno dei principali argomenti di critica alla tassa patrimoniale riguarda il rischio di doppia imposizione: tassare nuovamente ricchezze già assoggettate a imposte sul reddito o sul capitale.
Nel sistema fiscale tradizionale, infatti, i redditi prodotti da lavoro, capitale o impresa vengono già tassati al momento della loro generazione. La patrimoniale colpisce invece il valore accumulato di quei redditi, imponendo un prelievo periodico sul patrimonio netto del contribuente.

Come spiega Il Sole 24 Ore (giugno 2025), “una patrimoniale generalizzata rischia di intaccare i risparmi formati con redditi già tassati, penalizzando chi ha accumulato capitale in modo regolare e favorendo invece chi ha spostato o occultato la ricchezza all’estero”.
In altre parole, la misura può risultare iniqua se non accompagnata da un meccanismo di coordinamento con le imposte sui redditi e sui capital gain.

La tassazione delle plusvalenze

Il tema è particolarmente sentito negli Stati Uniti, dove le proposte di wealth tax avanzate dai democratici sono state giudicate incostituzionali proprio per questo motivo: “La Costituzione americana non consente una doppia tassazione federale sullo stesso reddito”, ha ricordato il Wall Street Journal nel febbraio 2025.
L’alternativa è rafforzare le imposte sulle plusvalenze non realizzate (unrealized capital gains) ovvero gli aumenti di valore di beni o  investimenti che non sono ancora stati venduti o convertiti in liquidità. In altre parole, si tratta di un guadagno “potenziale”, non ancora incassato. Parrebbe ad alcuni politici che queste azioni siano più mirate e coerenti con il principio di tassazione del reddito effettivo.

In Europa il problema è attenuato ma non risolto. La Francia, ad esempio, ha ridotto il rischio di doppia imposizione limitando la tassa sulla ricchezza (IFI) ai soli beni immobiliari, lasciando esenti azioni e investimenti già soggetti ad altre imposte.
“La lezione francese è chiara” scrive The Economist “una tassa patrimoniale ampia rischia di colpire la classe media più dei grandi patrimoni, a meno che non sia disegnata in modo chirurgico e integrata nel sistema fiscale complessivo”.

L’unica via sostenibile, secondo la maggior parte degli economisti dell’OCSE, è definire una base imponibile netta, che escluda risparmi già tassati, investimenti produttivi e patrimoni aziendali. Solo così la patrimoniale può diventare uno strumento di equità senza trasformarsi in un doppio prelievo punitivo.