AcomeA SGR: “Tariff is the greatest word in the English language”

Martina Daga, Macro Economist, AcomeA SGR -

Le tariffe sono state il fulcro della campagna elettorale di Trump, la promessa di riportare la produzione manifatturiera negli Stati Uniti, creare posti di lavoro e rivitalizzare i distretti manifatturieri. La sua campagna elettorale ha fatto leva proprio su main street, la fascia della popolazione che ha visto l’industria statunitense non riuscire a tenere il passo con la competizione estera, in particolare quella cinese. “Trade deficits hurt our workers, hurt our factories, and hurt our future. It’s an emergency” dice Trump, puntando all’imposizione di tariffe come soluzione per ribilanciare lo squilibrio di importazioni rispetto alle esportazioni nel Paese. Il trade deficit, ovvero la differenza tra esportazioni e importazioni, degli Stati Uniti ha superato mille miliardi di dollari negli ultimi 12 mesi, ben superiore rispetto alle altre principali economie sviluppate. Gli Stati Uniti da anni rappresentano il consumatore di ultima istanza per il mondo e un’importante fonte di domanda per le altre economie.

Con l’imposizione di tariffe alle importazioni, gli Stati Uniti tassano il consumatore per importare beni, cercando di rendere i prodotti locali più competitivi. Di fatto l’imposizione di tariffe alle importazioni da parte degli Stati Uniti rappresenta uno shock negativo di offerta per gli Stati Uniti stessi e uno shock negativo di domanda per i partner commerciali. Questo scenario dovrebbe dunque puntare, perlomeno nel breve periodo, a un rallentamento della crescita delle attività economiche a livello globale, spinte inflazionistiche negli Stati Uniti e, dall’altro lato, spinte deflazionistiche per il resto del mondo.

Le tariffe fino a ora annunciate sono su due piani diversi: tariffe reciproche, diverse per ciascun Paese sulla base dei rapporti commerciali. In occasione del 2 aprile “Liberation Day” erano state annunciate tariffe piuttosto punitive, poi una pausa di 90 giorni e tariffe pari al 10% su tutti i Paesi. Ora l’amministrazione Trump è in una fase di negoziazioni con i partner commerciali. Tariffe settoriali, ovvero tariffe imposte su determinati beni, indipendentemente dal Paese di provenienza. Fino a ora annunciate su auto e componenti (25%), acciaio e alluminio (50%) e probabilmente seguiranno per prodotti farmaceutici e rame. L’ammontare delle tariffe, dunque, non è ancora certo, ciò che è sicuro è che il livello medio di tariffe effettivamente pagate sulle importazioni sarà ben superiore al 2% che ha prevalso negli ultimi anni (Chart 2).

A oggi, Trump sta annunciando tariffe tramite i suoi poteri esecutivi, senza passare per il Congresso. Questo sicuramente dà al Presidente maggiore flessibilità e la possibilità di poter utilizzare le tariffe come arma di negoziazione. Tuttavia, la Corte Internazionale del Commercio a maggio ha rilasciato una sentenza che annulla le tariffe reciproche, in quanto Trump avrebbe oltrepassato l’autorità conferitagli dal Congresso secondo International Emergency Economic Powers Act (IEEPA). La Corte non ha invece messo in discussione la legittimità delle tariffe settoriali. Ora la sentenza è in sospeso e si aspetta una decisione della Corte d’Appello che potrebbe arrivare prima della fine dell’estate.

Questo porta un grande livello di incertezza per aziende e consumatori. Per ora, gli effetti sulle attività economiche rimangono piuttosto contenuti, così come l’impatto delle tariffe sull’inflazione. Con il dato di inflazione di giugno è evidente che iniziano a vedersi alcune pressioni sui prezzi di determinate categorie di beni; tuttavia, l’impatto sul paniere totale rimane piuttosto limitato. Detto questo, è possibile che l’impatto delle tariffe si debba ancora materializzare: prima di tutto le aziende hanno accumulato scorte di magazzino nei primi mesi dell’anno, quando Trump aveva anticipato che avrebbe imposto tariffe. Inoltre, di fronte a un quadro ancora piuttosto incerto, le aziende potrebbero essere restie ad aumentare i prezzi al consumo, per paura di perdere fette di mercato e potrebbero voler aspettare fino a quando la situazione sarà più chiara.

Nel frattempo, il Tesoro sta guadagnando dai dazi pagati alla dogana. Nel mese di giugno le entrate doganali sono state vicino a 27 miliardi di dollari, quasi 4 volte maggiori rispetto alle entrate mensili relative ai mesi precedenti all’imposizione di tariffe. Questo indica che, per il momento, i flussi di importazioni rimangono abbastanza sostenuti, e che, se le entrate fiscali dovessero continuare su questi livelli, potrebbero garantire entrate per più di 300 miliardi di dollari all’anno per il tesoro, corrispondente a circa il 15% del deficit fiscale degli Stati Uniti.

In conclusione, le tariffe volute da Trump restano il fulcro della sua strategia per rilanciare la manifattura statunitense e ridurre il trade deficit, ma generano incertezza e rischi sia per l’economia americana sia per quella globale. Al momento, l’impatto sulle attività economiche è contenuto, ma il futuro resta incerto e gli effetti più profondi delle misure tariffarie potrebbero emergere solo nei prossimi mesi. Nel frattempo, il Tesoro statunitense, alle prese con un crescente rapporto debito pubblico/Pil, registra una crescita delle proprie entrate grazie ai dazi doganali.