Bioeconomia e biodiversità: il capitale invisibile che ridefinisce l’economia futura
Negli ultimi mesi la stampa internazionale ha continuato a esplorare un fenomeno in espansione: una parte dell’economia cresce senza clamore, valorizzando risorse naturali che restano spesso ai margini delle politiche industriali. È la bioeconomia, che finisce per intrecciarsi profondamente con il concetto di biodiversità come capitale biologico invisibile ma fondamentale.
Emerge il valore economico della biodiversità, ma resta sottostimato
I commentatori globali, non solo ambientalisti ma anche analisti finanziari e imprenditori, sottolineano che foreste, oceani e suoli fertili non sono solo patrimoni ambientali: sono asset economici. Un articolo recente del World Economic Forum afferma che “senza biodiversità, le catene di approvvigionamento collassano, i costi aumentano e le reputazioni aziendali vengono compromesse”.
Secondo i dati, circa 44 trilioni di dollari di valore economico globale dipendono in modo “alto o moderato” dai servizi degli ecosistemi, vale a dire metà del PIL mondiale è fortemente legato a natura e biodiversità. Eppure, molte politiche pubbliche non tengono conto di questo capitale “nascosto”. Gli incentivi negativi (sussidi agricoli, estrazione, uso intensivo del suolo) spesso persistono, mentre gli strumenti per valorizzare la protezione della natura come tasse ambientali, pagamenti per servizi ecosistemici o crediti di biodiversità rimangono sottodimensionati.

Bioeconomia: più di un’etichetta “green”
Nel contesto italiano (ma con riflessi globali), la bioeconomia non è solo un’idea “green”, bensì una struttura produttiva che integra agricoltura rigenerativa, biotecnologia, bioindustrie, gestione dei cicli naturali e valorizzazione dei residui biologici: crea lavoro, innovazione e valore reale, pur restando in gran parte invisibile alle grandi strategie industriali.
Stiamo parlando di trasformare biomasse in materiali innovativi, alimenti a basso impatto e nuovi composti biotecnologici, ma anche di valorizzare servizi ecosistemici (es. impollinazione, sequestro del carbonio, filtraggio delle acque) come input produttivi.
Negli ultimi mesi, vari studi hanno confermato che pratiche agricole cosiddette “diversificate” come l’associazione di colture, l’agroforestazione o l’uso di amendanti organici generano benefici non solo ambientali ma anche economici nel medio-lungo termine. Un’analisi su dati pluridecennali ha mostrato come la redditività finanziaria, la qualità del suolo e i servizi ecosistemici possano aumentare del 2000-2800 % a venti-trent’anni rispetto a coltivazioni monoculturali rigidamente intensive.
Un altro studio europeo citato da arXiv valuta come la dimensione aziendale sia centrale: aziende medio-piccole che riducono l’uso di pesticidi e recuperano siepi possono ottenere benefici economici grazie al maggior controllo naturale dei parassiti. Al contrario, aziende molto grandi faticano ad ottenere gli stessi benefici per vincoli strutturali territoriali.
Questa intersezione tra produzione, ambiente, tecnologie è la vera essenza della bioeconomia.
Finanziamento e regolazione globale
Sul piano globale, il rischio della perdita di biodiversità è ormai percepito come rischio macroeconomico. Il rapporto “Finance Solutions for Nature” del WEF e McKinsey (settembre 2025) individua strumenti emergenti come obbligazioni legate alla biodiversità, società di asset naturali e prezzi interni della natura, pur evidenziando le difficoltà nell’armonizzare dati frammentari e integrare natura con finanza climatica.
Ancora, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OECD) pubblica un rapporto su come scalare gli incentivi positivi per la biodiversità, riequilibrando politiche fiscali e regolamentari che oggi penalizzano gli sforzi virtuosi.
Un passo importante è stato fatto a COP16 (Roma, 2025), dove è emerso un accordo (con critiche) per mobilitare 200 miliardi di dollari annui entro il 2030 per proteggere la natura. È stata proposta anche la Cali Fund, un meccanismo per far contribuire le imprese che beneficiano dell’uso delle risorse genetiche digitali. Tuttavia, osservatori internazionali come The Guardian avvertono che il testo approvato è “storico ma insufficiente”, con nodi importanti ancora da sciogliere su finanziamenti, sussidi dannosi e monitoraggio.
Nel mondo della finanza, alcuni attori cominciano a incorporare la biodiversità nei propri criteri d’investimento, ma secondo il Financial Times il divario finanziario da colmare resta enorme: alcuni fondi attivi in natura gestiscono solo pochi miliardi, mentre il bisogno stimato è centinaia di miliardi all’anno.
Verso un’economia “nature-positive”
Per chi osserva i trend internazionali, si profila una strada: non solo “non distruggere”, ma “rigenerare” — l’obiettivo nature-positive, ovvero invertire la perdita di biodiversità entro il 2030, ponendo come baseline il 2020. In questo scenario, la bioeconomia diventa il modo concreto di “mettere la natura al centro” dell’innovazione industriale: nuove biotecnologie, materiali biologici, rigenerazione dei suoli, uso efficiente delle acque e riconoscimento economico dei servizi naturali.
L’Italia, con la sua biodiversità, la ricchezza agricola e la presenza di imprese di nicchia nel settore biologico, ha un’opportunità in più. Ma serve che politiche industriali, governi locali e finanza riconoscano “il capitale invisibile” e lo rendano visibile nelle decisioni, nei bilanci e nelle strategie d’investimento. Solo allora la bioeconomia potrà uscire dall’ombra, diventando una colonna portante, non un mero orpello “green”.

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