Un’ondata di malessere tra i giovani cambia la curva della “crisi di mezza età”. I ventenni soffrono più dei quarantenni

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La “quarter-life crisis” è la nuova normalità? I ventenni soffrono più dei quarantenni

Secondo quanto pubblicato da Fortune negli USA un’ondata di malessere tra i giovani cambia la curva della “crisi di mezza età”. E i dati di lavoro, scuola e salute mentale aiutano a capirne le radici.

Negli anni Duemila chiamavamo “quarter-life crisis” l’ansia dei ventenni che entrano nel mondo adulto. Oggi il fenomeno non è più un’etichetta generazionale: secondo un working paper del National Bureau of Economic Research, il picco del “despair” non cade più a metà della vita, ma diminuisce con l’età. In altre parole: i giovani stanno peggio degli adulti, specie sotto i 25 anni e tra le donne.

Il cambio di paradigma non si spiega solo con la maggiore propensione a parlare di salute mentale. Gli autori legano il malessere giovanile anche al mercato del lavoro: tra i lavoratori under 40, e in particolare tra gli under 25, i livelli di disagio crescono mentre non si osserva lo stesso pattern sopra i 40. Il segnale è coerente con più dataset nazionali e con l’idea che la qualità del lavoro, dai ritmi, l controllo digitale, alla scarsa autonomia, conti quanto (se non più di) salario e occupazione.

Il quadro trova conferme fuori dell’mbito accademico. Il Bank of America Institute stima 289 milioni di giovani nel mondo né al lavoro né in formazione: un bacino che riduce opportunità e benessere di lungo periodo. Sul fronte “chi entra e dove”, un’analisi dello Stanford Digital Economy Lab segnala minori assunzioni di giovani in attività sensibili alla crescit dell’AI, dalla programmazione ai servizi ai clienti, proprio le porte d’ingresso tipiche per neolaureati. Dentro le aziende, infine, i sondaggi SHRM raccontano livelli elevati di burnout e benessere in peggioramento tra i più giovani, anche se con lievi segnali di sollievo post-pandemia. 

Non è però solo mondo del lavoro. I dati sanitari disegnano una tendenza che precede il Covid e che la pandemia ha aggravato. I Centers for Disease Control and Prevention (CDC) registrano quote ancora alte di studenti che riferiscono tristezza persistente, con livelli peggiori tra le ragazze; il calo osservato nel 2024 non basta a parlare di inversione di rotta. La WHO Organizzazione Mondiale della Sanità in Europa segnala un aumento dell’uso problematico dei social (dal 7% nel 2018 all’11% nel 2022) e del gaming, fattori associati a esiti peggiori di salute mentale. L’OCSE, in un rapporto del 2025, invita a politiche integrate scuola-sanità-lavoro per prevenire ansia e depressione tra adolescenti e giovani adulti.

La “crisi del quarto di vita” cioè di chi compie vent’anni, nel linguaggio corrente in America, diventa così un effetto generazionale strutturale più che un passaggio individuale: l’accesso alla casa e al credito è più costoso, i percorsi di carriera sono meno lineari, l’automazione ridisegna le mansioni entry-level, i legami sociali si assottigliano. Sono “rung removed”, pioli mancanti sulla scala di avanzamento, come osservano gli economisti alla base dello studio NBER.

Cosa fare, allora? Le evidenze puntano a tre percorsi possibili.
Primo, qualità del lavoro: ridisegnare ruoli junior con più autonomia, mentoring e controllo del carico, non solo benefit cosmetici. I dati SHRM mostrano che i manager alle prime armi pagano un prezzo alto sulla propria salute mentale; investire su leadership sostenibile aiuta tutta la squadra.
Secondo, transizioni istruzione-lavoro: tirocini retribuiti, apprendistati e politiche mirate ai NEET riducono il rischio di “scarring” iniziale, le cicatrici che segnano carriere e benessere per anni.
Terzo, prevenzione precoce: scuole e territori come primi presìdi, con programmi basati su evidenze per competenze socio-emotive, uso digitale consapevole e accesso facilitato a servizi psicologici, come raccomandano WHO e OCSE.

Il messaggio che arriva da ricerche, istituzioni e imprese è convergente: non stiamo assistendo alla fine della “midlife crisis” (la crisi della mezza età come viene definita in America), ma alla sua anticipzione di vent’anni. Ignorarlo significa perdere una generazione nel momento in cui dovrebbe costruire competenze, reti e capitale umano. Prenderlo sul serio vuol dire aggiornare politiche del lavoro, welfare studentesco e organizzazione aziendale alla vita reale dei ventenni di oggi. Non per assecondare fragilità, ma per ricostruire quei pioli mancanti nella scala di avanzamento del percorso della vita. E raddrizzare, insieme, la curva che da troppo tempo precipita in basso.