Il futuro industriale dell’Europa passerà dalla tenuta delle sue PMI. L’importanza del passaggio generazionale che ci apprestiamo a vivere

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Secondo la Commissione europea, nell’UE operano oltre 26 milioni di piccole e medie imprese, che generano più della metà del valore aggiunto e circa due terzi dell’occupazione privata. In Italia questo ruolo è ancora più marcato: l’OCSE stima oltre 4 milioni di PMI, 13 milioni di addetti e più del 65% del valore aggiunto nazionale.
Ma una quota decisiva di queste aziende è a controllo familiare e sta arrivando al cambio di generazione. Il tema non riguarda solo l’Italia: Reuters parla apertamente di “crisi di successione” nel Mittelstand tedesco, con migliaia di imprenditori senza eredi pronti a subentrare.
Il Financial Times ricorda che circa il 90% delle imprese nel mondo è familiare e che una gestione opaca del passaggio di consegne può avere effetti sistemici, non solo aziendali. In questo contesto, il passaggio generazionale nelle PMI italiane non è più soltanto una questione privata tra padre e figli, ma un tema di politica industriale. Con Umberto Callegari, CEO di Askéon Capital, proviamo a capire come capitale privato, governance e managerialità possano trasformare un momento di fragilità in un’occasione di rilancio competitivo per il Paese.

Intervista a Umberto Callegari, CEO di Askéon Capital

Umberto Callegari, lei sottolinea sempre il fatto che l’Italia sia un paese di PMI ed in particolare l’importanza del passaggio generazionale che ci apprestiamo a vivere: perché?

L’Italia non è solo un Paese di PMI. È, di fatto, un mercato privato naturale che non ha ancora costruito la propria infrastruttura finanziaria coerente. Le micro e piccole imprese sono circa il 99% delle aziende, generano oltre il 60% del valore aggiunto e impiegano circa il 75% dei lavoratori. Dentro questo tessuto, l’impresa familiare è la norma: fra l’85% e il 90% delle aziende è a controllo familiare.

Sul passaggio generazionale i numeri sono impietosi: solo il 30% delle imprese familiari sopravvive al primo passaggio, e appena il 3% arriva alla terza generazione.

Una stima recente indica che il 92% delle PMI familiari italiane affronterà una successione nei prossimi anni e che solo il 18% ha un processo strutturato. In un Paese dove quasi tutte le imprese sono PMI e quasi tutte le PMI sono familiari, ogni successione è un evento sistemico. Nei prossimi cinque anni parliamo verosimilmente di centinaia di migliaia di aziende, vicino a quota un milione, che cambieranno guida: non è questione di stile imprenditoriale, ma di sopravvivenza industriale del Paese.

Quindi quando parliamo di PMI escludiamo la globalizzazione?

In realtà no, delimitiamo con attenzione il ruolo che le nostre aziende ed il nostro paese giocherà nel contesto globale. Siamo tradizionalmente il paese delle Arti e dei mestieri: in molti settori, l’Italia ha costruito nicchie globali ad alto valore aggiunto: fonderie e meccanica di precisione, lavorazioni avanzate per automotive e aerospazio, componentistica, manifattura per il design e il fashion, agroalimentare di qualità. Sono imprese con poche decine di milioni di fatturato ma una densità di know-how difficilmente replicabile, vere e proprie “multinazionali tascabili”. Sono poco interessanti per i conglomerati globali – troppo specifiche, troppo basate su sapere tacito – e al tempo stesso troppo piccole e polverizzate per il grande capitale globale, che ragiona per ticket da centinaia di milioni. Il risultato è che l’asset più prezioso del Paese è strutturalmente sottocapitalizzato e sottogovernato, pur generando cash flow sani e margini potenziali elevati.

Come si può rispondere a questa situazione?

La risposta che si sente più spesso sembrerebbe: “andiamo in Borsa”. Ma per la gran parte delle PMI italiane la Borsa è un miraggio, se non un abbaglio. A fine 2024 l’intero listino valeva circa 836 miliardi di euro, poco più di un quinto di Nvidia e un terzo di Amazon: il segnale di una profondità insufficiente del mercato azionario. Sul segmento Euronext Growth, dedicato alle PMI, la capitalizzazione media in IPO è intorno ai 40 milioni, con flottanti nell’ordine del 20%: per molte società il capitale effettivamente negoziabile si riduce a 10–15 milioni di euro. Ne derivano scambi sottili, prezzi spesso scollegati dai fondamentali, difficoltà a fare aumenti di capitale seri. La crescita dei delisting indica che non è il singolo emittente a non funzionare, è l’architettura. Dire a una PMI che vuole crescere e aggregare “vai in Borsa e risolvi” è, nella maggior parte dei casi, una risposta sbagliata alla domanda giusta.

L’Italia ha un problema di capitale quindi?

In realtà ha un problema di corretta allocazione del capitale privato e del growth capital. Le famiglie italiane hanno superato i 6.000 miliardi di euro di ricchezza finanziaria, con oltre 1.300 miliardi accumulati in più dal 2019. Una quota rilevante è investita in prodotti con sottostante globale che alloca prevalentemente all’estero, mentre le PMI italiane continuano a vivere di autofinanziamento e debito bancario di breve, con pochissimo equity a supporto di successione, crescita e M&A di filiera. Il Paese vive un paradosso: il capitale generato dall’economia reale italiana non trova canali strutturati per tornare nell’economia reale italiana.

Ecco perché lei suggerisce che l’Italia debba fare leva sul capitale privato

In questo scenario, il private capital in sé non è il problema: i dati KPMG–AIFI indicano un IRR medio intorno al 18–20% negli ultimi dieci anni. L’asset class, sulla carta, è in grado di generare rendimenti elevati e di attrarre parte del risparmio di lungo periodo. Ma la domanda non è se il private capital “funzioni”: è come lo si costruisce. Se il rendimento nasce soprattutto da multiple expansion e deleverage, e poco da miglioramento industriale, la solidità di quell’IRR è molto meno robusta. Uno sbilanciamento strutturale sul deleverage significa usare il cash flow per cosmetica finanziaria – ripagare debito e “tirare su” il multiplo – invece che per impianti, tecnologia, persone, R&D, cioè per la competitività industriale che crea vera ricchezza per il sistema.

Sta quindi dicendo che il problema è come si alloca il capitale

Letti in chiave industriale, i numeri dicono altro: è la combinazione giusta di capitale e managerialità, con una prospettiva industriale, a generare rendimenti elevati e sostenibili. Ma la maggioranza delle imprese italiane è piccola o piccolissima, quindi semplicemente fuori dai radar dei grandi asset manager, focalizzati su pochi campioni nazionali e, soprattutto, su large cap estere. Per le nostre PMI, fare fundraising in equity non è scegliere tra tante opzioni, è uno sforzo strutturalmente difficile. La vera domanda non è se il private capital funzioni, ma come disegnare un modello di private capital che metta davvero al centro la transizione industriale del Paese.

Che cosa suggerirebbe?

La linea di demarcazione passa dalla presenza, o meno, di una prospettiva industriale e di una componente manageriale operativa nella catena del valore del capitale. Una cosa è costruire IRR del 18–20% comprimendo costi, spingendo sulla leva e rivendendo a fondi o corporate esteri. Un’altra è generare gli stessi IRR alzando strutturalmente margini, produttività, ROIC, qualità dei ricavi e resilienza di filiera, mantenendo governance e centri decisionali in Italia. Qui entra in gioco il tema del capitale paziente e della struttura degli investimenti.

Può darci qualche idea in più?

Per una PMI che deve affrontare passaggio generazionale, internazionalizzazione, digitalizzazione dei processi e uno o due add-on di filiera, 3–4 anni non bastano: servono archi temporali di 7–10 anni. Il capitale deve essere coerente: non disegnato solo per massimizzare un’uscita veloce, ma per accompagnare una trasformazione industriale reale. In questo contesto, l’investimento di minoranza con diritti di board ben definiti è una leva chiave. Non si tratta di fermarsi al 30% per timidezza, ma di costruire un equilibrio in cui la famiglia resta azionista di riferimento oltre che, spesso, guida imprenditoriale, il private capital entra con quota rilevante ma non totalitaria, siede stabilmente in consiglio, ha voce su piano industriale, M&A di filiera e allocazione del capitale. L’obiettivo non è sostituire l’imprenditore, ma mettere l’azienda nelle condizioni di sopravvivere e crescere oltre la sua generazione.

Quanto pesa la personalità dell’imprenditore?

Sì, un ulteriore elemento, spesso sottovalutato, è l’engagement con l’imprenditore. Nella maggior parte dei casi parliamo di figure straordinarie sul piano del prodotto e della relazione commerciale nella loro “zona naturale”, ma anche istintivamente diffidenti e individualiste. Senza pretendere panacee né chiedere atti di fede, l’esperienza mostra che la capacità di costruire un ponte fiduciario tra finanza, managerializzazione e imprenditoria è il passaggio più decisivo. Un ingresso di minoranza che non voglia sostituirsi all’imprenditore, ma costruire con lui una prospettiva industriale condivisa, non è un dettaglio negoziale: è condizione necessaria per una crescita strutturale della nostra economia reale, soprattutto manifatturiera.

Qual’è la sua convinzione personale?

Da manager che lavora all’intersezione fra tecnologia, finanza e industria, arrivo a una convinzione semplice: la finanza da sola non basta, ma nemmeno l’imprenditoria da sola è sufficiente. Serve un triangolo in equilibrio fra imprenditore, capitale e management. L’imprenditore porta storia, rischio e capacità di decidere in condizioni incomplete; il capitale porta orizzonte e disciplina; il management legge mercati, tecnologie, concorrenza, regolazione e traduce il capitale in scelte operative. Il punto non è mettere l’Operating Partner al centro, ma integrare davvero la prospettiva industriale nella catena di decisione del capitale.

È in questa prospettiva che nasce Askéon Capital. Askéon si propone come partner industriale, di aziende considerate “micro” (tra i 3 ed i 30 mln di fatturato) ma dal potenziale industriale e strategico enorme, non come veicolo di flipping. Lavora con gli imprenditori, non contro di loro, mantenendo le famiglie come azionisti di riferimento e collocando il capitale di terzi in posizione di minoranza attiva, con deleghe chiare per accompagnare piano industriale, governance e M&A di filiera. La creazione di valore non è affidata a espansioni di multipli, ma a quattro leve concrete: miglioramento strutturale dei margini, qualità e diversificazione dei ricavi, efficienza del capitale investito, resilienza finanziaria e di filiera.

Come vede il futuro industriale del nostro Paese?

In un Paese in cui le PMI rappresentano il 99% delle imprese, generano buona parte del valore aggiunto e dell’occupazione, la strategia di Askéon non è una strategia di nicchia: è, sostanzialmente, politica industriale fatta con strumenti privati. Nei prossimi cinque-dieci anni l’Italia si gioca una parte decisiva del proprio futuro industriale. Possiamo continuare con interventi episodici, lasciando che il capitale entri ed esca secondo logiche globali, oppure decidere consapevolmente di diventare un Paese di mercati privati organizzati, dove il risparmio italiano finanzia, con rendimenti adeguati, le imprese che fanno davvero il Paese.

Alla fine, la differenza fra un’operazione che genera IRR svuotando lentamente un pezzo d’Italia e un’operazione che produce lo stesso IRR rafforzandone la spina dorsale industriale non la fanno gli slogan, ma l’architettura: finanziaria, industriale e manageriale integrata nelle decisioni. Tutto il resto – green, digitale, ESG, AI – è strumentale: potentissimo se inserito in questa logica, perfettamente inutile se resta uno slogan appeso a un sistema che continua a sgretolarsi, una successione dopo l’altra. Il momento per scegliere non è “quando i tassi scenderanno” o “quando la Borsa ripartirà”. Il momento è adesso.