Supercondominio: non basta usare la stessa strada. La Cassazione chiarisce quando scattano davvero gli obblighi
Supercondominio
Una recente ordinanza della Corte di Cassazione (n. 27998/2025) fa chiarezza su un punto spesso oggetto di interpretazioni forzate: il supercondominio non nasce automaticamente solo perché più edifici utilizzano la stessa strada o un medesimo accesso. Perché possa applicarsi la disciplina condominiale estesa, serve una comproprietà reale dei beni comuni. Un chiarimento che ha conseguenze pratiche rilevanti per amministratori, proprietari e gestori di patrimoni immobiliari.
Il caso: un viale privato conteso in Sardegna
La vicenda nasce a Solanas di Sinnai, vicino Cagliari. Un condominio e una villetta unifamiliare condividono di fatto l’utilizzo di uno stradello privato con cancello e illuminazione. L’amministratore del condominio ingiunge ai vicini una quota di spese per la manutenzione, sostenendo l’esistenza di un supercondominio “di fatto”. La Corte d’Appello di Cagliari gli dà ragione, ma la Cassazione ribalta tutto: condividere l’uso non significa essere comproprietari.
In assenza di comproprietà, non si può applicare la disciplina del supercondominio.
Che cosa stabilisce la Cassazione
La Suprema Corte chiarisce che il supercondominio può configurarsi solo quando esiste una comproprietà effettiva delle parti comuni, come previsto dall’art. 1117 del Codice Civile, e quando tali beni sono strutturalmente e funzionalmente accessori alle unità immobiliari che li utilizzano. Inoltre, il supercondominio nasce automaticamente soltanto se gli edifici derivano dal frazionamento di un originario complesso unitario, oppure quando la sua costituzione è espressamente prevista da un atto negoziale.
In assenza di questi presupposti – cioè quando edifici distinti utilizzano un bene che appartiene in via esclusiva a uno solo di essi – il rapporto non può essere regolato dalla disciplina condominiale: occorre invece ricorrere agli strumenti propri del diritto privato, come le servitù o le convenzioni d’uso.
Le implicazioni operative
“Per gli amministratori questo significa che, prima di chiedere contributi a immobili confinanti o a edifici frontisti che condividono l’utilizzo di un’infrastruttura, è indispensabile verificare la titolarità del bene e non estendere automaticamente la disciplina del supercondominio per analogia. – spiega l’avv. Palmiro Fronte, founder dello Studio Fronte – Dove manca la comproprietà, la gestione deve essere formalizzata attraverso accordi specifici e trasparenti.”
“Dal lato dei proprietari, la pronuncia rappresenta invece una tutela importante: l’uso di un bene non implica, di per sé, l’obbligo di partecipare alle spese condominiali. Solo la comproprietà, o un accordo che lo preveda, può generare obblighi.”
Intervista all’Avv. Palmiro Fronte
“Il supercondominio, così come oggi disciplinato — spiega l’avv. Palmiro Fronte — è stato definito con la riforma del 2013, che ha introdotto l’articolo 1117-bis c.c. Prima se ne parlava già, ma senza una regolamentazione organica. La norma nasce per gestire grandi complessi: portinerie comuni, centrali termiche, aree verdi condivise, strade interne”.
La criticità è l’uso improprio del concetto
“In molte città — osserva l’avv. Fronte — si tende ad applicare il termine supercondominio anche quando manca la comproprietà. Il risultato? Conflitti su parcheggi, manutenzione, accessi, sicurezza. Eppure, quando lo strumento è applicato correttamente, risolve invece problemi e crea un quadro di governance chiaro”.
Il valore economico può essere significativo:
“In Sardegna — prosegue — ci sono supercondomini con mille unità immobiliari. A Milano interi quartieri sono serviti da centrali termiche condivise e gestiti come supercondomini. Parliamo di bilanci rilevanti, che richiedono competenze e trasparenza, spesso superiori a quelle del singolo condominio”.
La recente pronuncia non restringe l’istituto del supercondominio: ne corregge l’applicazione impropria. Per amministratori e proprietari, il messaggio è chiaro: prima si accerta la comproprietà, poi si applica la disciplina.
È una questione di certezza giuridica, ma anche di buona amministrazione.

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