L’Europa fa suonare un campanello d’allarme a Wall Street: l’avvertimento di Jamie Dimon (JPMorgan Chase) e il dibattito oltreoceano

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Il numero uno di JPMorgan Chase & Co. descrive l’Europa come un continente “debole”, con troppa burocrazia e poca capacità di attrarre investimenti. Nei principali media finanziari americani, l’allarme di Jamie Dimon scatena un dibattito su competitività, regolamentazioni e il futuro della collaborazione transatlantica.

Alla recente edizione del Reagan National Defense Forum, Jamie Dimon ha lanciato un monito netto: “L’Europa ha un vero problema”. Secondo il CEO di JPMorgan, il blocco europeo avrebbe perso slancio competitivo per effetto di burocrazia, regolamentazioni rigide e politiche che allontanano investimenti e innovazione, con conseguenze economiche non trascurabili anche per gli Stati Uniti: un’Europa debole, secondo lui, rappresenta un rischio sistemico per l’economia globale.

Il commento dei grandi media americani

Tra i principali quotidiani e media finanziari USA, le parole di Dimon sono state raccolte con attenzione, scatenando riflessioni che vanno oltre la provocazione.
Bloomberg ha rilanciato l’allarme ricordando che un’Europa in difficoltà «non è solo un problema per Bruxelles o Francoforte, ma per l’intera economia globale».
Fortune, che ha riportato anche le dichiarazioni durante un evento a Dublino, ha parlato di un’Europa in declino rispetto agli Stati Uniti, dove Dimon ha affermato che il vecchio continente è in “ritardo” su crescita e attrazione di capitali.

Diversi commentatori, soprattutto nei settori finanziari regolamentati, usano queste affermazioni per rilanciare il tema della “competizione fiscale” tra USA ed Europa: non solo sull’attrazione di investimenti, ma anche su come la rigidità normativa europea possa rendere più lenta l’adozione di innovazioni, dalle banche all’industria tech.

L’eco delle parole di Dimon risuona soprattutto laddove si intrecciano finanza, politica economica e geopolitica: un’Europa debole non è vista solo come un rischio economico ma anche come un vuoto strategico che Wall Street tiene d’occhio, al di là delle dichiarzioni aggressive di Donald Trump di questi giorni.

Critiche e tensioni sul “ritorno all’Europa”

Non manca chi contesta la diagnosi di Dimon, anche tra gli editorialisti finanziari americani. Non sempre la “burocrazia” significa inefficienza: regolamentazioni più stringenti possono riflettere standard su lavoro, ambiente, tutela dei consumatori che rendono l’economia europea più sostenibile e meno volatile nel lungo termine.

Il confronto tra “tassi di crescita USA vs Europa” deve considerare differenze demografiche, strutturali e sociali. Un’Europa più lenta, dicono alcuni analisti, è anche un’Europa con welfare, resilienza e una visione diversa del mercato. Ridurre la questione a “meno tasse e regolamentazioni = più investimenti” è un approccio che trascura i rischi legati a disuguaglianze, precarietà, effetto climatico e instabilità sociale. Alcuni editoriali suggeriscono che il vero rischio non è la burocrazia, ma un modello economico che premia il breve termine a scapito della sostenibilità.

Che cosa significa per l’Europa e per l’Italia

Le parole di Dimon sono un campanello d’allarme per chi guarda all’Europa come piattaforma di rilancio post-pandemia e post-transizione energetica. Se l’idea che “chi innova vince” diventa prevalente anche in élite finanziarie, le pressioni su regolamentazione, tassazione e competitività aumenteranno.

Per l’Italia che costituisce un’economia mista, con tessuto produttivo forte ma spesso fragile, il rischio è duplice: essere percepita come “mercato del Sud Europa” poco competitivo dagli investitori internazionali; dover competere sia sui costi sia su capacità di innovare, in un contesto regolatorio e fiscale complesso.

Al tempo stesso, però, il dibattito sollevato da Dimon può essere un’opportunità per spingere su riforme: snellimento burocratico, maggiore certezza regolatoria, incentivi agli investimenti, ma senza sacrificare diritti sociali, tutela ambientale e coesione.

Il vero test sarà nei prossimi 12–24 mesi: chi saprà bilanciare apertura e responsabilità guiderà la trasformazione dell’economia globale.