Tassazione “green”, tra numeri e consenso: dove si colloca l’Italia nel confronto con l’Europa e in cosa consistono le imposte ambientali
Il gettito delle imposte ambientali italiane supera la media UE e vale fino al 3% del Pil, ma la presenza di sussidi ai combustibili fossili e una forte concentrazione su energia e trasporti indeboliscono il segnale “green”. Intanto, i principali quotidiani europei discutono di equità sociale, carbon tax e rischio di nuove proteste.

Il dibattito sulla “fiscalità verde”
In Italia il dibattito sulla “fiscalità verde” si è riacceso con la Legge di Bilancio 2026 e, in particolare, con l’ipotesi di equiparare le accise su benzina e gasolio, anticipando quanto già previsto da un decreto legislativo del marzo 2025. Il tema, però, va oltre la singola misura: riguarda l’intera architettura delle imposte ambientali, il loro peso rispetto agli altri Paesi europei e, soprattutto, la capacità di queste tasse di orientare davvero consumi e investimenti verso la transizione ecologica.
L’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani dell’Università Cattolica del Sacro Cuore in un’analisi pubblicata a fine novembre 2025, prova a mettere ordine in numeri spesso evocati in modo ideologico. E offre una chiave di lettura utile se confrontata con il modo in cui la stampa economica europea racconta la stessa partita: quella di un fisco che vuole diventare “verde” senza perdere consenso sociale.
In cosa consistono le imposte ambientali
La definizione ufficiale arriva dalla Commissione europea: sono imposte la cui base imponibile è una grandezza fisica che ha un impatto negativo sull’ambiente (consumo di energia, emissioni, uso di risorse, inquinamento).
Queste imposte rientrano tra gli strumenti “di mercato” (market-based instruments): invece di vietare direttamente certe attività, ne aumentano il costo, spingendo imprese e famiglie a scegliere alternative meno inquinanti. L’idea è nota: far pagare il prezzo delle esternalità ambientali a chi consuma combustibili fossili, usa mezzi inquinanti o produce rifiuti, in linea con il principio “chi inquina paga”. In pratica, a livello europeo le imposte ambientali si dividono in quattro grandi categorie: energia, trasporti, inquinamento e risorse naturali. Ma il peso relativo di ciascuna voce varia molto da Paese a Paese.
L’Italia secondo l’Osservatorio della Cattolica: tante tasse, poco “verde puro”
Secondo l’Osservatorio CPI, nel 2024 il gettito delle imposte ambientali in Italia è stato di circa 61 miliardi di euro, pari al 2,8–3% del Pil e al 6,1% del totale delle imposte e contributi. Il profilo che emerge è molto chiaro: le imposte ambientali italiane sono numerose (20 diverse voci nel 2024) e il gettito è significativo, superiore alla media UE (circa 2% del Pil), ma la struttura è fortemente sbilanciata.
Quasi l’80% del gettito proviene dalla voce “Energia”, soprattutto accise sui carburanti e imposte sull’energia elettrica. Le tasse sui trasporti (come il tradizionale “bollo auto”) valgono poco meno del 20%, mentre quelle su inquinamento e uso di risorse naturali si fermano all’1,3%, circa 790 milioni di euro secondo quanto clcolato dall’Università Cattolica del Sacro Cuore
L’Osservatorio sottolinea un altro elemento: solo una quota sempre più ridotta delle entrate è “di scopo”, cioè vincolata a finanziare esplicitamente politiche ambientali (incentivi alle rinnovabili, ecotassa sui rifiuti in discarica, ecc.). Questa quota è scesa dal 23% del totale nel 2016 al 15% nel 2024. In altre parole, molte delle cosiddette “tasse verdi” italiane sono di fatto imposte generali sul consumo di energia, che finiscono nel bilancio complessivo e solo marginalmente finanziano la transizione.
Dal picco del 2014 al rimbalzo post-crisi energetica
Guardando alle serie storiche ricostruite da Istat e riprese dall’Osservatorio, il rapporto tra imposte ambientali e Pil in Italia è rimasto a lungo vicino al 3%, con un picco al 3,8% nel 2014, grazie soprattutto agli oneri di sistema in bolletta per sostenere le rinnovabili.
Poi inizia la discesa: da un lato, perché la diffusione di fonti più sostenibili riduce il consumo di combustibili fossili e quindi la base imponibile; dall’altro, per gli interventi di detassazione decisi in risposta alla crisi energetica esplosa nel 2022, con il taglio di accise e oneri di sistema per contenere le bollette.
Nel 2023 il gettito ambientale italiano è salito a 54,2 miliardi, +19,4% rispetto al 2022, anche per il progressivo ritiro delle misure emergenziali; nel 2024 si è tornati attorno al 2,8–3% del Pil.
La fotografia che ne esce è quella di un sistema relativamente “maturo”, che non cresce più per nuove imposte, ma oscilla in base a tre fattori: andamento dei consumi energetici, volatilità dei prezzi e interventi politici per attenuare gli shock sui redditi.
Italia più virtuosa della media dei Paesi UE: ma meno ambiziosa dei Paesi “green leader”
A livello europeo, Eurostat stimava per il 2023 entrate da imposte ambientali pari a 341,5 miliardi di euro, con un’incidenza di circa il 2% del Pil e poco più del 5% del totale delle entrate tributarie, in calo rispetto al 6,3% del 2010.
Nel confronto tra Paesi, elaborazioni del Ministero dell’Ambiente italiano indicano che nel 2022 l’Italia era all’ottavo posto per peso delle imposte ambientali sul Pil (circa 2,2%), leggermente sopra la media UE (2%), ma in arretramento rispetto al 2014, quando occupava la quinta posizione. A livello di composizione, l’Italia non è un’eccezione: l’Agenzia Europea dell’Ambiente ricorda che nell’UE il 76% delle imposte ambientali è legato all’energia, il 19% ai trasporti e appena il 5% a inquinamento e risorse.
Dove si nota una divergenza maggiore è sull’uso di strumenti come la carbon tax o le accise differenziate per intensità emissiva. Alcuni Paesi del Nord (come la Finlandia, che ha introdotto una carbon tax già negli anni ’90) hanno costruito nel tempo un sistema di prezzi del carbonio più articolato, combinando imposte sui combustibili, sistemi ETS e meccanismi di redistribuzione del gettito. L’Italia, invece, concentra gran parte del segnale di prezzo sulle accise tradizionali, meno legate in modo trasparente alla quantità di CO₂ emessa.
Chi paga davvero le tasse verdi: le famiglie al centro del mirino
Nel 2024, secondo i dati raccolti dall’Osservatorio della Cattolica, circa 31,1 miliardi di gettito ambientale sono stati versati dalle famiglie e 28,4 miliardi dalle imprese, con una quota residuale derivante da non residenti che acquistano carburanti in Italia.
La struttura ricorda quella europea: secondo Eurostat, nel 2023 le famiglie hanno contribuito in media al 48,3% delle entrate da imposte ambientali dell’UE, con quote superiori al 40% in 15 Stati membri.
Anche la stampa europea sottolinea spesso questo sbilanciamento. In Spagna, Cinco Días (Gruppo El País) ricordava nel 2023 come il Paese fosse tra quelli con minore gettito da imposte verdi, ma con una crescente attenzione alla tassazione dei carburanti, considerata cruciale per recuperare “il tempo perduto” in fiscalità ambientale Nel 2024, El País ha poi raccontato l’aumento del 10,7% degli imposti ambientali pagati dagli spagnoli nel 2023, evidenziando che il 42,8% del gettito proveniva dalle famiglie e che il nuovo balzello sulla plastica non riutilizzabile aveva cambiato la composizione del prelievo, spostando parte del peso su inquinamento e risorse.
Sul versante più critico, il quotidiano conservatore La Razón ha messo l’accento su come, sempre in Spagna, i nuclei domestici abbiano visto crescere del 21% in cinque anni la pressione delle tasse ambientali, con oltre 10,8 miliardi versati nel 2024.
Il messaggio è chiaro: in tutta Europa, non solo in Italia, la percezione pubblica è che la transizione fiscale verde pesi più sui bilanci delle famiglie che su quelli delle grandi industrie.
Il Regno Unito
Nel Regno Unito, le imposte ambientali (environmental taxes) coprono un insieme piuttosto ampio di tributi su energia, rifiuti, fonti fossili, consumo e inquinamento. Sono uno degli strumenti che il governo applica per promuovere la decarbonizzazione, in linea con il suo impegno verso la neutralità carbonica entro il 2050.
Climate Change Levy (CCL): imposta sull’energia destinata a usi non domestici (industria, commercio, agricoltura, servizi) per elettricità, gas, carbone, combustibili vari.
Carbon Price Floor (CPF) / Carbon Price Support (CPS): un prezzo minimo sul carbonio applicato nella generazione elettrica con combustibili fossili, per penalizzare le emissioni più inquinanti.
Landfill Tax: tributo sulla discarica dei rifiuti, pensato per scoraggiare l’uso di discariche e favorire riciclo e smaltimento più sostenibile. Aggregates Levy: imposta sull’estrazione e l’uso di materiale da costruzione (aggregati, sabbia, ghiaia), per scoraggiarne lo sfruttamento intensivo.
Oltre a queste, il sistema fiscale ambientale include oneri sull’energia, imposte sui carburanti, tasse indirette e misure collegate a ETS (mercati del carbonio) o meccanismi di carbon pricing
L’altro lato della medaglia italiana: i sussidi “ambientalmente dannosi”
L’Osservatorio CPI insiste su un punto che spesso sfugge al dibattito pubblico: la presenza, accanto alle imposte, di sussidi ambientalmente dannosi (SAD), che incentivano l’uso di combustibili fossili. Secondo l’ultimo Catalogo MASE, nel 2022 erano in vigore 55 misure di questo tipo, per un totale di circa 24 miliardi di euro.
Di fatto, una parte del segnale di prezzo generato dalle tasse viene annullata da agevolazioni su gasolio professionale, agevolazioni per alcuni usi industriali di energia, e trattamenti di favore su carburanti in settori come agricoltura, autotrasporto, navigazione.
Su questo la stampa italiana e quella europea convergono: i report della Commissione e dell’OCSE sottolineano che la coesistenza di tasse e sussidi in direzioni opposte riduce l’efficacia della politica climatica e complica anche la narrazione politica, perché i contribuenti vedono gli aumenti di prezzo ma non sempre percepiscono la logica generale del sistema.
Cosa dice la stampa europea: tra giustizia sociale e rischio ripercussioni (backlash)
Se il lavoro dell’Osservatorio della Cattolica è centrato sui numeri, i quotidiani economici europei guardano soprattutto alla dimensione politica e sociale della fiscalità verde.
Il Financial Times ha raccontato negli ultimi mesi il dibattito su un nuovo sistema di carbon pricing su carburanti e riscaldamento domestico (il cosiddetto ETS 2), che l’UE intende far partire nel 2027. Secondo il quotidiano, l’ipotesi di utilizzare parte del gettito per colmare i buchi di bilancio europei, invece che per compensare i cittadini più fragili, alimenta le resistenze di Paesi come Francia e Polonia, che temono una replica delle proteste dei “gilet gialli”.
Proprio la Francia è un laboratorio emblematico. Le Monde ha più volte ricordato come la tassa carbone, introdotta nel 2014 e aumentata rapidamente fino al 2018, sia diventata il detonatore della crisi dei gilet gialli quando la percezione di ingiustizia – “pagano di più i pendolari delle periferie, con meno alternative” – ha superato quella di utilità ambientale.
Più recentemente, il quotidiano parigino ha evidenziato un paradosso che riguarda da vicino anche l’Italia: in Francia il gas fossile risulta spesso meno tassato dell’elettricità “bas-carbon” grazie al mix nucleare e rinnovabili, inviando un segnale fiscale contrario rispetto agli obiettivi di decarbonizzazione. Il tema è molto simile a quello sollevato da analisi italiane sulle accise e sugli oneri di sistema: il fisco, di fatto, continua a premiare l’uso di taluni combustibili rispetto ad alternative più pulite.
La questione dell’equità è centrale anche in un rapporto del Consiglio nazionale delle politiche di lotta contro la povertà, sempre raccontato da Le Monde, secondo cui, in Francia, le tasse sull’energia rappresentano il 4,5% del reddito dei cittadini più poveri contro l’1,3% dei più ricchi. Una dinamica che, se trasposta pari pari in Italia, renderebbe politicamente esplosivi ulteriori aumenti di accise senza robusti meccanismi redistributivi.
In Spagna, oltre agli editoriali di area progressista di El País, che chiedono una riforma fiscale in chiave ambientale ma “socialmente giusta”, non manca la critica più dura dei quotidiani conservatori, che denunciano un’“escalation” di imposte verdi sui bilanci degli elettori.
In Germania, alcune analisi segnalano come l’aumento del costo dell’energia e l’idea di nuove Umweltsteuern rischino di alimentare ulteriori conflitti distributivi, rafforzando movimenti contrari alla transizione ecologica e mettendo sotto pressione la competitività dell’industria.
Che cosa manca ancora all’Italia
Se mettiamo insieme l’analisi dell’Osservatorio della Cattolica e il racconto dei grandi quotidiani europei, emerge un quadro piuttosto coerente.
L’Italia ha un livello di tassazione ambientale non basso nel confronto UE, leggermente sopra la media; concentra però quasi tutto il gettito su energia e carburanti, con poco spazio per imposte su inquinamento e uso di risorse. In pratica, usa solo in parte il gettito per finanziare in modo trasparente politiche verdi e mantiene, al contempo, sussidi rilevanti ai combustibili fossili che indeboliscono il segnale di prezzo.
La stampa europea, dal canto suo, mostra che la il tema non è tanto “alzare o abbassare le tasse”, quanto ridisegnarle: rendere più coerente il segnale ambientale, ampliare la base della tassazione (inquinamento, risorse, plastica, suolo) e contemporaneamente proteggere le fasce più vulnerabili con rimborsi, bonus mirati o veri e propri “dividendi climatici”
Per l’Italia, il punto evocato anche dall’Osservatorio è esattamente questo: passare da una fiscalità che si limita a “fare cassa” sull’energia a una fiscalità ambientale moderna, capace di accompagnare la transizione riducendo le emissioni e le disuguaglianze, invece di spostarle da una bolletta all’altra.
In questa prospettiva, la vera discriminante nei prossimi anni non sarà la quantità di tasse verdi, ma la loro qualità: chi paga, su cosa, come vengono usate le risorse e quale narrazione politica le accompagna. È qui che l’Italia, guardando a cosa fa l’Europa, ha ancora un ampio margine di manovra.

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