Effetto Trump sulla Fed, il mercato azionario e la situazione in Europa
Nella riunione immediatamente successiva alle elezioni, Powell ha abbassato il tasso dei FED Funds di ulteriori 25 punti base e, secondo le previsioni, farà altrettanto nell’ultimo meeting dell’anno a dicembre. Tuttavia i suoi commenti, così come quelli di altri membri del FOMC, tornano ad essere piuttosto da falco. Il governatore ribadisce spesso di orientarsi solo sul breve termine e che non sussiste alcuna urgenza di tagliare i tassi, visto che l’economia americana continua a mostrare forza e che l’inflazione si sta muovendo verso il target di equilibrio senza averlo ancora pienamente raggiunto. Il mercato oggi prezza solo 70 bps da qui alla fine del 2025, aspettandosi pertanto maggior cautela per non ripetere l’errore del 2021 in caso la dinamica dei prezzi tornasse ad alzare la testa.
Per quanto riguarda il mercato azionario invece, dalla vittoria di Trump i listini americani hanno segnato ottime performance, spinte dalle politiche pro-business e pro-crescita del Presidente eletto. In particolare, il Russell 2000 e il Dow Jones sono gli indici che più hanno beneficiato dopo l’elezione, mentre il Nasdaq, complici i tassi di interesse a lungo in salita, ha leggermente sottoperformato: la fase rialzista è dunque stata piuttosto omogenea, a parte alcuni specifici settori percepiti come particolarmente invisi alla nuova amministrazione, come le energie rinnovabili.
Il posizionamento sull’equity nel mese di novembre è salito al tasso più rapido di sempre dal 2010, in particolare ovviamente sul mercato americano. Il divario in termini di capitalizzazione di borsa tra Stati Uniti e resto del mondo continua ad aumentare in maniera sensibile grazie a una sovraperformance ormai strutturale. Il divario è ben evidente anche in termini di valutazioni, che continuano ad essere decisamente sopra la mediana negli Stati Uniti, in linea con la mediana nell’Eurozona e ben al di sotto in Giappone, nel Regno Unito e in Italia.
La situazione in Europa è molto diversa sotto tutti gli aspetti. L’inflazione continua a stringere verso il target di equilibrio, l’economia appare stagnante, la politica fiscale rimane restrittiva e in alcuni grandi Paesi come Francia e Germania la stabilità politica è decisamente a rischio. L’elezione di Trump è un elemento sicuramente negativo per l’Europa che, ovviamente, sarà la destinataria delle politiche commerciali protezionistiche annunciate dal Presidente eletto. Molto probabilmente esse saranno un’arma negoziale per ottenere maggiori spese in difesa da parte dei Paesi europei a fronte di un decrescente impegno americano sul fronte russo-ucraino.
Le ben diverse prospettive tra le due sponde dell’Atlantico sono ben visibili dalle dinamiche del cambio euro/dollaro, tornato nelle ultime settimane ai livelli di due anni fa.
Anche all’interno dell’Unione Europea c’è una sorta di dicotomia tra Paesi tradizionalmente “core”, i sei Paesi fondatori: Francia, Germania, Italia e Benelux, che viaggiano a tassi di crescita più bassi e con finanze pubbliche spesso in affanno e i Paesi più “periferici” che invece hanno tassi di incremento del PIL decisamente più vivaci: Spagna, Portogallo, Polonia, Repubblica Ceca.
Alla luce di queste premesse, la BCE appare decisamente più legittimata a proseguire nel proprio sentiero di riduzione dei tassi d’interesse. Dopo il taglio di ottobre, si prevede un ulteriore taglio in dicembre e altri cinque ribassi di 25 punti base nel corso del 2025, arrivando quindi addirittura in territorio espansivo, portando il tasso dei depositi sotto il livello teorico del tasso di equilibrio, che la maggioranza degli economisti stima intorno al 2.25-2.50 nell’Eurozona.

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