Freelance e stereotipi: i falsi miti più comuni
La carriera del libero professionista attira sempre più persone, ma resta avvolta da pregiudizi duri a morire. Dalla (presunta) assenza di tutele alla maternità impossibile, ecco cosa c’è davvero dietro la vita da lavoratore autonomo
Libertà, flessibilità, indipendenza. Ma anche precarietà, solitudine e zero tutele. Quando si parla di lavoro freelance, il dibattito si muove spesso tra questi poli opposti, rimbalzando tra l’entusiasmo di chi lo sceglie e lo scetticismo di chi lo guarda da fuori. Eppure, dietro i luoghi comuni che ancora oggi accompagnano la vita del libero professionista, esiste una realtà molto più articolata — fatta di dati in crescita, nuovi modelli organizzativi, e una progressiva normalizzazione del lavoro autonomo nel tessuto produttivo italiano ed europeo.
Nel solo mese di febbraio 2025, secondo i dati ISTAT[1], il numero di occupati in Italia ha raggiunto quota 24 milioni e 332 mila. Di questi, ben 5 milioni e 170 mila sono lavoratori indipendenti: 141 mila in più rispetto all’anno precedente, con una crescita annua del +2,8%. Un segnale chiaro: il lavoro freelance non è un’alternativa di ripiego, ma una scelta consapevole sempre più diffusa e strutturale nel mercato del lavoro italiano.
Anche a livello europeo il quadro si conferma rilevante. Secondo Eurostat[2], nel 2024 i freelance rappresentavano il 14,3% del totale degli occupati nell’Unione Europea, contribuendo per il 17,6% del monte ore lavorate complessivo. L’Italia è tra i Paesi con la quota più alta di lavoratori autonomi (23,1%), seconda solo a Grecia e Bulgaria — ben al di sopra di Svezia (5,2%) e Danimarca (5,4%). Numeri che raccontano un cambiamento profondo, e che ci spingono a fare chiarezza: cosa c’è di vero nei luoghi comuni sul mondo freelance? È davvero un universo fatto di libertà e flessibilità? O è tempo di ridiscutere, dati alla mano, tutto ciò che diamo per scontato? Vediamo più da vicino alcuni dei falsi miti più diffusi.
Libertà o precarietà?
La libertà di lavorare quando e dove si vuole è uno dei principali vantaggi percepiti del freelance. Tuttavia, è anche uno degli elementi più fraintesi. Questa libertà spesso viene confusa con la precarietà. Se da un lato la flessibilità permette ai freelance di gestire autonomamente tempo e spazi, dall’altro impone un rigore gestionale e una capacità di organizzazione molto elevata. La libertà implica responsabilità: mantenere un flusso di entrate costante, acquisire nuovi clienti, gestire il tempo in autonomia senza perdere efficienza.
Eppure, sempre più ricerche dimostrano che la flessibilità lavorativa non solo non penalizza la produttività, ma, spesso, la potenzia anche nei rapporti di lavoro subordinato: secondo uno studio del professor Nicholas Bloom (Stanford University, 2024[3]), il lavoro ibrido riduce il tasso di dimissioni di un terzo e migliora la soddisfazione lavorativa, senza impatti negativi sulla produttività.
I freelance non fanno carriera?
Allo stesso modo, anche sul piano della carriera, il lavoro freelance sfata molti pregiudizi. Un altro stereotipo infatti lo descrive come una scelta temporanea o di ripiego, priva di reali prospettive di crescita. In realtà, il lavoro freelance permette percorsi professionali molto articolati e una crescita spesso superiore rispetto ai modelli tradizionali. Molti freelance diventano esperti di nicchie specifiche, acquisendo un alto grado di specializzazione e riconoscibilità nel proprio settore. La capacità di networking e visibilità online può anche portare a opportunità significative, come collaborazioni prestigiose e consulenze per grandi aziende internazionali.
Un’analisi[4] dimostra che i lavoratori autonomi guadagnano in media il 45% in più rispetto ai dipendenti tradizionali. Una differenza significativa, che riflette non solo una maggiore flessibilità, ma anche la capacità di definire le proprie tariffe, selezionare i progetti e scalare la propria attività in base agli obiettivi personali e professionali.
Nessuna copertura: se ci si ammala, addio reddito?
Uno dei timori più diffusi e radicati riguardo al lavoro freelance riguarda la mancanza di protezioni sociali, soprattutto in caso di malattia o infortunio. In Italia, come è noto, i datori di lavoro sono obbligati a iscrivere i propri dipendenti all’INAIL, l’Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro, che garantisce una copertura assicurativa in caso di infortuni o malattie professionali, mentre per i liberi professionisti non è prevista la stipula di una copertura assicurativa obbligatoria. Sono tenuti ad iscriversi all’INAIL, come avviene per i lavoratori dipendenti, solo alcune categorie di autonomi, come artigiani e coltivatori diretti.
In tale contesto, per tutto il mondo delle Partite Iva, assume un ruolo cruciale l’assicurazione infortuni offerta dalle compagnie assicurative private. I dati ANIA[5] confermano un crescente interesse verso queste soluzioni: le polizze infortuni hanno registrato una raccolta premi pari a 4,162 miliardi di euro nel 2024, con un aumento del +2,8% rispetto all’anno precedente. Un segnale chiaro di una maggiore consapevolezza da parte dei lavoratori autonomi rispetto alla necessità di proteggersi da imprevisti che possono compromettere la continuità del reddito.
Nel lungo periodo, tuttavia, l’indice generale di incidenza infortunistica (cioè il numero di denunce ogni 100mila occupati) mostra un miglioramento: da 155 del 2019 si è scesi a 124 nel 2025, con un calo del 19,6%. Numeri che raccontano una crescente attenzione ai temi della sicurezza, ma anche la necessità, per i freelance, di dotarsi in autonomia di strumenti di tutela adeguati.
Ferie: un lusso per pochi?
Un altro luogo comune piuttosto diffuso è che i freelance non possano mai andare in vacanza. L’idea che chi lavora in autonomia sia costantemente operativo, senza possibilità di staccare davvero, è radicata ma imprecisa. La verità è che molti freelance riescono a concedersi delle pause, pianificando con cura i propri periodi di inattività e avvisando per tempo i clienti. La differenza, rispetto ai lavoratori dipendenti, sta però nel fatto che questi momenti di riposo non sono retribuiti né garantiti da alcun contratto collettivo.
La questione non è tanto se un freelance possa o meno andare in ferie, ma come riesca a farlo. Senza un reddito fisso assicurato nei giorni di pausa, è necessario costruire una strategia finanziaria che permetta di assentarsi dal lavoro senza compromettere la stabilità economica. Mentre i dipendenti beneficiano di un minimo di quattro settimane di ferie retribuite all’anno — come previsto dalla Direttiva 2003/88/CE recepita anche in Italia — i lavoratori autonomi devono auto-finanziare ogni giorno di vacanza. Ecco perché, secondo numerose testimonianze di professionisti del settore, le ferie per i freelance tendono a essere più brevi e spesso frammentate.
Gravidanza e freelance: una missione impossibile?
La gravidanza rappresenta spesso una delle sfide più grandi per chi lavora in modo autonomo, soprattutto per le donne freelance. Molti pensano che affrontare una maternità da freelance significhi necessariamente rinunciare al lavoro o affrontare enormi difficoltà economiche. Tuttavia, non è sempre così.
È vero: a differenza delle lavoratrici dipendenti, le libere professioniste non godono delle stesse tutele previste da contratti collettivi o dal welfare aziendale. Il congedo parentale per i lavoratori autonomi è infatti di massimo tre mesi ciascuno, da fruire entro il primo anno di vita del bambino. È prevista un’indennità economica per il periodo di astensione dal lavoro pari al 30% della retribuzione.
E anche per il 2025, come confermato dall’INPS[6] nel messaggio n. 401 del 31 gennaio, l’esonero contributivo destinato alle lavoratrici madri con almeno due figli è confermato, ma con limiti ben precisi. La misura si applica alle dipendenti del settore privato (escluso il lavoro domestico) e – solo in teoria – anche alle lavoratrici autonome, purché con un reddito previdenziale annuo entro i 40.000 euro. In pratica, però, le Partite Iva restano ancora escluse, poiché mancano le indicazioni operative per rendere effettivo l’accesso alla misura. L’esonero è valido fino al compimento dei 10 anni del figlio più piccolo, ma solo per chi non ha già beneficiato dell’incentivo previsto dalla Legge di Bilancio 2024. A partire dal 2027, la misura sarà ulteriormente ristretta: riguarderà solo le madri di tre o più figli, fino al compimento del diciottesimo anno di età del figlio più giovane.
Resta comunque attiva un’altra forma di sostegno: le professioniste iscritte alla Gestione Separata dell’INPS hanno diritto a un’indennità di maternità pari all’80% del reddito medio percepito nei 12 mesi precedenti, per una durata complessiva di cinque mesi, con possibilità di proroga in situazioni particolari.
Comprare casa o accendere un mutuo: possibile?
Un altro stereotipo molto diffuso è quello secondo cui per un freelance sarebbe praticamente impossibile accedere al credito bancario per acquistare una casa. Se è vero che per chi lavora in autonomia è spesso più complesso dimostrare stabilità finanziaria, non significa affatto che ottenere un mutuo sia fuori portata. Negli ultimi anni, le banche si sono infatti progressivamente adeguate al crescente numero di lavoratori autonomi, sviluppando prodotti ad hoc e modalità di valutazione del merito creditizio più flessibili, che tengono conto dei flussi di cassa complessivi piuttosto che dei soli redditi fissi mensili.
I liberi professionisti possono quindi accedere a un mutuo, purché siano in grado di dimostrare almeno due anni di attività continuativa, presentare una documentazione fiscale aggiornata (come il Modello Redditi) e, in alcuni casi, fornire garanzie aggiuntive come un co-intestatario o una fideiussione. Il punto, quindi, non è la forma contrattuale, ma la capacità di dimostrare affidabilità economica nel tempo.
I freelance lavorano meno: mito o realtà?
È diffuso il mito che i freelance lavorino meno rispetto ai dipendenti. La realtà, tuttavia, è ben diversa. Molti freelance si trovano a lavorare molte più ore dei dipendenti tradizionali, spesso anche durante weekend e serate, per gestire più clienti e progetti simultaneamente. Secondo gli ultimi dati Eurostat[7], i lavoratori autonomi italiani si collocano al quinto posto in Europa per ore settimanali lavorate, con una media di 46 ore nel caso in cui abbiano collaboratori o dipendenti. Nel confronto europeo, i più “stakanovisti” sono i belgi (57,6 ore), seguiti da francesi (54,9), austriaci (48,7) e finlandesi (48,1). All’estremo opposto, l’Ungheria, dove i freelance con dipendenti lavorano solo 10 ore settimanali in media (e appena 8,6 senza), seguita da Croazia e Malta.
Questi numeri raccontano una realtà fatta di flessibilità, sì, ma anche di grande impegno e responsabilità. Il lavoro freelance non è un’alternativa “più leggera”, ma un’attività che richiede una forte capacità di gestione del tempo, carichi di lavoro spesso superiori e una disponibilità estesa, anche fuori dagli orari d’ufficio.
I freelance sono eternamente soli?
Infine, uno dei falsi miti più radicati è che il lavoro freelance ti porti ad essere solo. In effetti, il rischio di lavorare in solitudine, senza un contesto collettivo o momenti di scambio informale, è reale. Secondo il Microsoft Work Trend Index 2024, il 41% dei lavoratori completamente da remoto ha riportato sentimenti di disconnessione sociale, mentre il 37% ha dichiarato di sentirsi meno coinvolto nelle dinamiche aziendali. Se da un lato la possibilità di lavorare ovunque rappresenta una grande opportunità, dall’altro evidenzia quanto sia importante — anche per chi lavora in autonomia — costruire attivamente spazi di relazione e confronto, siano essi fisici o digitali. E questo, spesso, dipende proprio dal singolo: dalla sua capacità di cercare connessioni, coltivare reti e nutrire relazioni che vadano oltre la produttività.
In conclusione, il lavoro freelance è ormai una componente strutturale del mercato del lavoro italiano ed europeo, eppure continua a muoversi in una zona grigia fatta di riconoscimenti parziali e tutele frammentate. Nonostante la crescente attenzione istituzionale, la distanza rispetto ai diritti garantiti nel lavoro dipendente resta evidente.
In attesa di una cornice normativa più inclusiva e aggiornata, i lavoratori autonomi sono spesso chiamati a supplire con strumenti individuali. Tra questi, la stipula di una RC professionale rappresenta una delle risposte più concrete per affrontare i rischi legati all’attività quotidiana.
In un mercato sempre più competitivo e interconnesso, dove una consulenza sbagliata, un refuso o un malinteso possono trasformarsi in un contenzioso, tutelarsi da conseguenze legali ed economiche è una scelta strategica, oltre che prudente. Non si tratta solo di un obbligo previsto per alcune categorie regolamentate, ma di una forma di responsabilità verso sé stessi e i propri clienti, utile a costruire fiducia, reputazione e sostenibilità nel tempo. Perché la libertà, per restare tale, ha bisogno di garanzie. Anche (e soprattutto) quando si lavora in proprio.
[1] https://www.istat.it/wp-content/uploads/2025/04/CS_Occupati-e-disoccupati_FEBBRAIO_2025.pdf
[3] https://www.nature.com/articles/s41586-024-07500-2
[4] https://www.zirtual.com/blog/freelance-statistics/?

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