Quando la crescita non è per tutti: il conflitto tra distribuzione dei dividendi azionari e benessere dei lavoratori
Negli ultimi anni, sempre più analisti mettono in evidenza una dinamica che sembra contraddire l’idea, ben radicata nel pensiero economico moderno, che il progresso aziendale traini un miglioramento generalizzato per tutti gli attori dell’economia: imprese, lavoratori, società.
Federico Fubini oggi sul Corriere della Sera online ha pubblicato un articolo molto interessante dal titolo “La discesa record dei salari reali in Italia (con il boom degli utili d’impresa)” in cui argomenta che, in Italia, l’aumento degli utili aziendali, in particolare di imprese pubbliche e banche, è largamente drenato dal sistema finanziario anziché tradursi in migliori salari o investimenti.
Secondo Fubini i salari reali sono in calo, nonostante la crescita economica. Le società a controllo pubblico (utilities, imprese quotate partecipate dallo Stato) mostrano una crescita dei fatturati ben superiore all’inflazione, ma i benefici vanno in parte verso dividendi, stock option e redditi da capitale, piuttosto che verso i lavoratori. In particolare, vengono citati i dividendi che lo Stato riceve dalle imprese partecipate come uno strumento attraverso cui riscuotere una parte dei guadagni di quelle società, piuttosto che lasciare che il valore rimanga nel sistema produttivo.

Federico Fubini dunque denuncia questo “effetto drenaggio”: una parte significativa della ricchezza generata dalle imprese non resta nell’economia reale (salari, investimenti, produzione) ma finisce in forma di redditi da capitale. Questo, secondo lui, è uno dei fattori alla radice dell’impoverimento relativo percepito da molti cittadini.
Questa osservazione trova conferma nei dati riportati dallo stesso Corriere: tra il 2020 e il 2023, i dividendi distribuiti alle maggiori società italiane sono cresciuti dell’86% in termini reali, mentre nello stesso periodo i salari reali si sono ridotti di quasi il 13%. E c’è anche chi fa notare che anche nel privato molte imprese reinvestono solo una frazione relativamente piccola dei propri utili (in certi contesti si parla di circa il 20%) mentre il resto va in dividendi.
Allo stesso tempo, storie come quella di imprese che, durante la pandemia, continuavano a pagare dividendi consistenti, anche quando avrebbero avuto un forte incentivo a trattenere riserve per navigare l’incertezza, sono state messe sotto accusa (ad esempio il caso di Enel, Italgas, Snam).
Gli azionisti dovrebbero essere remunerati tramite l’aumento del valore aziendale, non (o non principalmente) tramite dividendi, secondo l’opinione di esperti aziendali come Roberto Targetti, che ha occupato posizioni di rilievo in aziende come Novartis o Heineken negli ultimi vent’anni.
In altri termini, sarebbe preferibille un modello in cui gli utili restino all’interno dell’azienda, compensando gli azionisti indirettamente, attraverso l’apprezzamento del titolo, piuttosto che con dividendi immediati che “svuotano” cassa.
Questa prospettiva non è affatto marginale nel dibattito teorico e pratico sulla politica dei dividendi e sull’allocazione del capitale. Ecco alcuni elementi chiave del discorso che merita considerare:
Teoria dell’“irrilevanza” dei dividendi (Modigliani–Miller)
Secondo la classica teoria di Modigliani e Miller, in un mondo ideale senza imposte, costi di transazione, asimmetria informativa, la politica dei dividendi sarebbe neutra: gli azionisti ottengono rendimento in ogni caso, che sia tramite dividendi o tramite guadagno in conto capitale. In pratica, le asimmetrie, le imposte e i vincoli reali fanno sì che la scelta della politica dei dividendi abbia conseguenze concrete.
Segnali e abitudini
Distribuire dividendi può essere un segnale che l’azienda è stabile, sicura di generare flussi di cassa costanti; ma può anche indurre comportamenti distorti, se le imprese si sentono costrette a mantenere cedole elevate anche quando la situazione finanziaria peggiora. Paradossalmente, aumentare un dividendo in momenti di crisi può comunicare fiducia, proprio in un’azienda che forse dovrebbe impiegare i capitali in modo più proattivo per superare gli ostacoli reali che sta affrontando.
Reinvestire gli utili permette all’azienda di finanziare ricerca, innovazione, espansione, aumentare produttività: insomma, accrescere il valore nel lungo termine. Se la pressione sui dividendi è troppo forte, l’azienda non ha interesse a remunerare gli azionisti oggi, ma ad investire per il domani. Oggi molti sostenitori della crescita aziendale preferiscono trattenere utili e puntare sull’apprezzamento del capitale.
Comportamento dell’investitore e preferenze
In effetti, alcuni investitori, in particolare coloro che cercano flussi di reddito regolari, danno valore ai dividendi “reali” (la “cedola che entra in tasca”). Altri, più orientati al lungo termine con un orizzonte di accumulo, possono preferire che gli utili restino in azienda e si traducano in crescita del valore.
Da un punto di vista non solo ideologico, ma pragmatico, se percettori privilegiati di utili sono grandi azionisti finanziari, la ricchezza tende a concentrarsi, mentre il capitale reale produttivo (salari, innovazione, investimenti) tende a ristagnare. È una critica che si sposa con le analisi sulla crescente disuguaglianza e sulla “finanziarizzazione” dell’economia.
Altri punti di vista: vantaggi e limiti dei dividendi
Per arricchire il dibattito, vale la pena di considerare dal punto di vista professionale come molti operatori finanziari e gestori vedano i dividendi come elementi utili in portafoglio:
Molti fondi “dividend” enfatizzano che, in fasi di volatilità o di crescita rallentata, i dividendi possano dare una “base minima” di rendimento e stabilità al portafoglio. Ad esempio, Capital Group sostiene che le aziende con dividendi storici stabili tendano ad essere più resilienti nei momenti di crisi.
Altri sottolineano che i dividendi possono costituire una componente rilevante del rendimento totale nel lungo termine: si parla spesso di valori intorno al 40% del rendimento azionario totale che provengono da dividendi reinvestiti (dipende da periodo e contesto). Al contempo, molti avvertono che un dividendo eccessivo (payout troppo alto) può mettere a rischio la capacità dell’azienda di investire nel futuro o di resistere agli shock.
Questi argomenti non smentiscono la posizione di Fubini, ma la mettono in una nuova prospettiva: non tutti i dividendi sono uguali, né tutte le aziende sono nella condizione di distribuirli senza conseguenze. Il punto centrale è la qualità e la sostenibilità della politica dei dividendi, non l’assenza assoluta.
In sintesi: un giusto equilibrio che permetta di conciliare crescita, retribuzione agli azionisti e sostegno all’economia reale è un obiettivo difficile, ma importante da perseguire.

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Mente e denaro
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