Negli USA i giovani giudicano i media «faziosi, noiosi, caotici e scarsi». Che cosa significa per i giornalisti
Un nuovo studio evidenzia un sentimento largamente negativo verso i media da parte degli adolescenti statunitensi: fiducia bassa, sospetti elevati e poca voglia di giornalismo.
Nel suo articolo “Biased, Boring, Chaotic and Bad” sottotitolato “A majority of teens hold negative views of news media”, la giornalista Sarah Scire ha riportato i risultati di un’indagine di Nieman Lab sul rapporto tra adolescenti (13-18 anni) e i media negli Stati Uniti. I dati raccontano un quadro allarmante: l’84 % dei giovani ha descritto i media con parole fortemente negative: “fake”, “crazy”, “boring”, “biased”, “sad” le più frequenti.

Nel contesto dell’articolo pubblicato su Nieman Journalism Lab, il termine “biased” viene utilizzato dagli adolescenti intervistati per descrivere i media come di parte, faziosi, o non neutrali.
Non si tratta solo di una critica all’orientamento politico delle testate, ma di una percezione più ampia: quella secondo cui i giornalisti non raccontano i fatti in modo equo, selezionano ciò che pubblicano per confermare una narrativa e trascurano le voci o i punti di vista che non si allineano con la linea editoriale o ideologica della testata. Le notizie sembrano filtrate da un’opinione o da un interesse, invece che presentate in modo oggettivo; il giornalismo appare polarizzato, più interessato a “convincere” che a “informare”; spesso le testate vengono percepite come portatrici di finalità nascoste, sia politiche sia economiche.
Sarah Scire sottolinea che questo giudizio non nasce necessariamente da una conoscenza approfondita del funzionamento delle redazioni, ma da una percezione diffusa e sedimentata: per molti adolescenti, ogni media ha “un padrone” o “un obiettivo” e quindi non è mai completamente affidabile.
Le definizioni dei giovani
«Boring» indica la sensazione che ciò che viene fatto sia prevedibile, poco coinvolgente, senza stimolo. «Chaotic» suggerisce che l’informazione appare disorganizzata, sovraccarica di messaggi senza filtro, mentre «bad» – “scarso” – è l’etichetta globale per un prodotto che non risponde alle aspettative di accuratezza, rilevanza o fiducia.
Un dato particolarmente significativo è che circa metà degli intervistati crede che i giornalisti «fabbrichino dettagli, come citazioni», o «pagano fonti» per ottenere notizie. Questo dimostra un profondo sospetto nei confronti dell’onestà e del metodo professionale del giornalismo.
Le implicazioni per il giornalismo e per il pubblico
A fronte di questi risultati, emergono alcuni punti cruciali. In primo luogo, se un segmento così importante come gli adolescenti valuta i media come poco affidabili, il legame tra informazione e cittadinanza attiva rischia di indebolirsi. La credibilità è il bene più prezioso per un’informazione che vuole essere utile e formativa. Come rileva Scire, «solo il 32 % dei ragazzi è riuscito a nominare un film o una serie che parlasse di giornalismo» segno della scarsa familiarità con la professione.
In secondo luogo, l’insoddisfazione verso i media appare connessa anche al cambiamento del panorama dell’informazione: come sappiamo, i giovani oggi attingono le informazioni dai social media o dai contenuti condivisi dagli amici piuttosto che dai giornali tradizionali. Scire segnala che molti studenti intervistati «non hanno interesse a diventare giornalisti» e percepiscono i media più come spettatori che come attori nel dialogo civico.
Cosa dovrebbero fare le redazioni?
Per riconquistare questo pubblico, le redazioni devono affrontare argomenti delicati.
Sul bias percepito ovvero la sensazione soggettiva del pubblico che una notizia, un servizio o un giornale non siano imparziali, ma orientati da un pregiudizio, un interesse o una narrativa predefinita occorre distinguere: non è necessariamente un bias reale (cioè una distorsione effettiva dei fatti), ma la percezione di una parzialità. In altre parole: anche se il giornalista cerca l’oggettività, se il pubblico crede che la notizia sia filtrata o manipolata, quella fiducia è comunque compromessa. Servono trasparenza sulle fonti, ammettere gli errori, chiarire i processi editoriali. Mostrare il “dietro le quinte” aiuta a rendere il prodotto meno «biased».
Noia e coinvolgimento. I giovani cercano storie rilevanti, con un linguaggio visivo e digitale adeguato, che offrano non solo informazione ma anche contesto e significato. Ogni flusso comunicativo risulta ridondante, ma i media possono distinguersi smontando la confusione e offrendo chiarezza su ciò che è fatto bene, spiegando il metodo.
Il contesto italiano: spunti dalla stampa finanziaria
Se guardiamo all’Italia, la sfiducia nei media è un tema ricorrente. Ad esempio, Il Sole 24 Ore ha più volte commentato come la disintermediazione digitale stia erodendo il rapporto diretto tra giornalisti e pubblico, lasciando spazio a un’informazione “a pezzi”, frammentata e spesso percepita come poco collegata alla realtà.
Un altro quotidiano altrettanto affidabile, MF Milano Finanza, ha sottolineato che «la capacità di attrarre i giovani lettori passa oggi da un’informazione che sappia parlare il loro linguaggio e non solo dalle piattaforme», evidenziando che i media tradizionali devono innovare se vogliono restare rilevanti.
Credo che questo studio dimostri con chiarezza che il rischio per il giornalismo non è solo la perdita di pubblico, ma la perdita di legittimità. Quando un’intera generazione considera i media «noiosi» o «sospetti», abbiamo un problema che va oltre la semplice audience. Occorre che i giornalisti e le organizzazioni mediatiche si trasformino: non solo nei canali, ma nei processi, nella cultura editoriale, nella partecipazione del pubblico.
Per recuperare fiducia, bisognerebbe puntare su tre direttrici: educazione all’informazione (introdurre nei percorsi scolastici la media-literacy come materia), trasparenza operativa (spiegare le scelte giornalistiche, gli errori, gli aggiustamenti), e coinvolgimento diretto (attivare dialoghi con i giovani lettori, contenuti user-centred).
In definitiva, i termini che i ragazzi usano non sono semplici critiche generiche: sono segnali che riguardano la credibilità, la forma e la struttura dell’informazione. Ignorarli significa rischiare che la funzione sociale del giornalismo perda vigore, mentre ascoltarli può diventare una leva per innovare e rinvigorire il rapporto con le nuove generazioni.

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