“Milano, si è spento il sole”. Ma può ancora risorgere. Serve un nuovo piano per Milano, che metta al centro le persone
“Milano, si è spento il sole”. Ma può ancora risorgere
di Carmelo Ferraro e Gianfranco Pepe
“Milano che fatica, Milano che s’infila
Milano che quando piange, piange davvero…”
— Lucio Dalla, “Milano” —
Milano corre, cresce, si espone. Milano si trasforma in verticale. Ma dietro la sua silhouette di vetro e acciaio, dietro le torri che si stagliano come simboli di potere, qualcosa si è spento.
Lo aveva capito Lucio Dalla quando cantava della città con un misto di amore e amarezza. Quella Milano che ride e si diverte, ma spesso, troppo spesso, “fa la stupida”.
Negli ultimi anni, Milano ha scelto l’immagine: la skyline internazionale, i quartieri residenziali per pochi, la movida luccicante. È diventata capitale della finanza, della moda, dell’evento permanente. Ma è anche diventata il teatro di un intrattenimento svuotato di senso: un piano di locali dove l’arte lascia spazio al consumo, dove la notte è piena di balere travestite da club di lusso, e troppo spesso di escort travestite da celebrità.
C’era un tempo in cui Milano non aveva il fascino evidente di Roma né la sensualità tragica di Napoli. Napoli, sì, che pur tra mille contraddizioni, continua a vivere visceralmente: con l’anima in piazza, con la musica nei vicoli, con la poesia nelle crepe dei muri. Milano no, Milano non ha mai cercato di piacere. Semmai, voleva essere utile. Era la città del lavoro, dell’industria, dei treni del mattino. Era concreta, sobria, vera.
Poi è arrivata la trasformazione
Necessaria? Forse. Ma incompleta. Perché se da un lato la città ha conquistato le copertine internazionali, dall’altro ha perso il senso di sé. Ha privilegiato l’arricchimento di pochi e oscurato quell’anima collettiva che la rendeva diversa da tutte le altre. Laddove c’erano cortili e umanità, oggi ci sono residence con portineria h24. Laddove c’era accoglienza, oggi ci sono barriere economiche e culturali.
Eppure, non è troppo tardi
Milano lo sa. Milano ha già saputo risorgere nei momenti più duri della sua storia. Lo ha fatto durante la Resistenza, contro l’occupazione tedesca. Lo ha fatto ricostruendosi dopo le macerie della guerra. Lo ha fatto faticosamente dopo il blocco di “Mani Pulite”. Lo ha fatto reinventandosi capitale del lavoro nel dopoguerra e dell’innovazione negli anni Duemila. Poi è cresciuta dopo ExpoMilano2015 e rinata dopo il Covid. Può farlo di nuovo.
Ma serve un nuovo piano per Milano
Un piano che metta al centro non il profitto, ma le persone. Che ripensi gli spazi pubblici come luoghi di incontro, non di esclusione. Che riporti la cultura fuori dai circuiti elitari. Che trasformi la città in un laboratorio di umanità, e non solo di investimenti. Che valorizzi l’enorme patrimonio del terzo settore e del commercio di prossimità. Che torni a essere la Milano “col cuore in mano”, europea sì, ma anche profondamente italiana, l’italianità tutta milanese che sa accogliere e integrare gli immigrati di ogni luogo, che spesso diventano più milanesi dei milanesi. Perché milanesi è un modo di essere non di nascere.
Perché una città che dimentica la propria anima, può anche brillare — ma non scalda più nessuno.
E allora sì, anche oggi, anche adesso, si può tornare a vedere il sole.
Ma solo se Milano torna a essere di tutti.

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