Trump, il passo indietro sul clima scontenta tutti

Ophélie Mortier -

La vittoria degli azionisti di Exxon Mobil, che hanno costretto il gigante statunitense del petrolio ad essere più trasparente circa il suo impatto sul cambiamento climatico, si staglia in netto contrasto con l’annuncio di Trump sull’abbandono da parte degli Stati Uniti dell’accordo di Parigi, decisione che comunque potrà essere implementata solo nel medio-lungo periodo.

E chissà, a quel punto potrebbe essere già stato sottoposto a impeachment. Tuttavia, un importante alleato si sta ritirando dal dibattito sulle emissioni di CO2 e ha posto in stand-by le proprie relazioni internazionali.
Subito dopo l’affermazione di Trump, c’è stata una frenesia di reazioni e commenti, che confermano che il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo di Parigi rimarrà innanzitutto un “no” simbolico. Gli investitori, la comunità finanziaria e le grandi multinazionali riconoscono infatti le principali sfide climatiche, Inoltre, l’impulso di mantenere l’accordo di Parigi e di potenziare le fonti di energia a basse emissioni di CO2 proviene dal settore privato. La vittoria degli azionisti di Exxon non è una tantum e segue casi di successo simili presentati contro altre compagnie petrolifere statunitensi, ad esempio Occidental Petroleum e PPL Corporation. Le decisioni prese in occasione delle assemblee dei soci illustrano bene l’atteggiamento mutevole degli azionisti, che stanno spingendo per una maggiore trasparenza sui rischi climatici.
Stati come la California, New York e l’Iowa sono stati colpiti duramente dai cambiamenti climatici e hanno pertanto già rivisto i loro metodi di produzione di energia. Da questo punto di vista, quindi, un passo indietro radicale per loro non rappresenta un’opzione. Anche se non possiamo completamente escludere che gli altri paesi andranno nella stessa direzione degli Stati Uniti, i rischi sono comunque abbastanza limitati:
a causa delle reazioni immediate dell’Europa e in particolare della Cina, che si sono posizionate come principali sostenitori dell’accordo di Parigi;
per il periodo di molti anni che richiede il ritiro.
La posizione della Cina è fondamentale, poiché Pechino è attualmente uno dei principali emittenti di gas serra. Tuttavia, non dimentichiamo che la Cina è uno dei maggiori investitori nell’energia eolica e solare e che non dispone di risorse petrolifere sufficienti per soddisfare le proprie esigenze energetiche. Inoltre, il paese è costretto a ridurre il suo utilizzo di carbone a causa degli effetti dell’inquinamento atmosferico sulla popolazione, elemento che sta anche causando un rallentamento della crescita economica.
Il ritiro statunitense richiederà ufficialmente quattro anni, a meno che Donald Trump non decida di uscire dalla convenzione quadro delle Nazioni Unite del 1992 sui cambiamenti climatici, predecessore dell’accordo di Parigi. Le probabilità che l’accordo sia rinegoziato durante la COP 23 a Bonn, presieduta dalle Figi, a novembre di quest’anno, sono basse.
L’annuncio di Trump deve innanzitutto essere considerato alla luce del suo impegno elettorale “America First”. Gli Stati Uniti avrebbero potuto facilmente rimanere nell’accordo di Parigi senza negoziare in modo proattivo una transizione verso altre fonti energetiche e presentando regolarmente progressi limitati per ridurre le emissioni di gas serra. Tuttavia, il primo obiettivo del presidente è quello di dare un forte segnale: l’uscita da un accordo globale di una superpotenza forte e prospera.

Trump non dovrà solo confrontarsi con il crescente malcontento dei suoi partner internazionali, ma anche di una gran parte dei suoi cittadini e delle società che stanno effettuando la transizione a un’economia a basse emissioni di carbonio e che si rendono conto dell’assenza di alternative.


Ophélie Mortier – Responsabile degli Investimenti Responsabili – Degroof Petercam AM