Co-investimento e co-involgimento: perché di più è meglio

Eugenio Niccolini -

Per approcciare il settore degli investimenti diretti in Venture Capital in maniera strutturata e professionale è importante seguire alcune regole.

In primis seguire e monitorare da vicino le società su cui si è investito, non solo al fine di costruire un sempre più solido know-how in questo specifico settore di investimento, ma anche per mettersi nella condizione di poter supportare l’imprenditore nelle varie fasi di sviluppo della società. Infatti, solo coloro che si distingueranno come investitori “a valore aggiunto” riusciranno ad investire in quelle opportunità a cui solo pochi hanno accesso. Questo vale ancora di più se si tratta di un investitore privato le cui risorse finanziarie sono assai più limitate di quelle di un fondo VC specializzato.

Spesso quando ci si trova di fronte ad un’opportunità d’investimento in Venture Capital ci si limita a focalizzare l’attenzione sull’inizio e sulla fine del percorso tralasciando ciò che sta nel mezzo. Per fase “iniziale” s’intende il momento che va dalla ricezione delle prime informazioni sulla società alla firma dei documenti di sottoscrizione, mentre per fase “finale” si intende tutto il processo riguardante il disinvestimento, ovvero la cosiddetta fase di exit.

Una volta chiuso il round di finanziamento, da un lato ci sarà il management della società che potrà finalmente tornare alle sue attività principali mentre dall’altro, un nuovo investitore che appena conclusa la fase “iniziale” si accingerà ad entrare in quella che chiamo fase “centrale” del periodo d’investimento.

L’approccio ahimè più frequente e tipico di un investitore di minoranza è quello di disinteressarsi ed aspettare che il capitale investito come per magia si moltiplichi a distanza di qualche anno. A dire il vero non è neanche escluso che ciò accada(!) ma questo approccio lascia disperdere la maggior parte del valore.

Durante la fase “centrale” la società si sviluppa, cresce, testa nuove soluzioni e aggiusta il proprio modello a seconda delle risposte ricevute dal mercato. Un’azienda di successo di cui si venderà la partecipazione sarà notevolmente differente rispetto a quella su cui si era investito 3-5 anni prima. In altri termini, anche se si fosse investito agli inizi nella Uber o nella Facebook di turno, il ritorno economico registrato sarebbe certamente eccezionale ma se l’approccio fosse stato quello appena descritto si sarebbe persa l’impagabile occasione di capire e vivere dall’interno le difficoltà riscontrate dall’azienda e le conseguenti scelte vincenti che l’hanno guidata al successo.

Nel caso più infelice invece, ovvero quello in cui ci si trova ad aver investito in una società che non sia stata poi in grado di soddisfare le aspettative, ci si ritroverebbe nella spiacevole situazione di aver perso l’intero (o buona parte) del capitale senza neanche aver capito bene il perché. Posto che il fallimento o il mancato raggiungimento degli obiettivi da parte di alcune delle società in portafoglio è una caratteristica intrinseca di questo settore, da tutti gli investimenti effettuati, di successo o fallimentari che siano, si può (e si deve) imparare qualcosa. L’unico modo perché ciò accada è che le società siano seguite in maniera interessata e pro-attiva da parte dell’investitore.


Eugenio Niccolini – analista – U-Start