Obbligazionario: sarà un’estate crudele?

Chris Iggo -

Finora quest’anno il mercato ha dovuto affrontare diverse difficoltà: l’ondata di volatilità a febbraio, il terremoto nei prezzi dei titoli tecnologici a marzo e lo shock nei mercati emergenti delle ultime due settimane.

Questi fenomeni sono correlati tra loro? Sono la conseguenza della chiusura della politica monetaria estremamente accomodante negli Stati Uniti? O dipendono semplicemente dall’affollamento di alcune posizioni? E’ opinione condivisa, difficile da contraddire, che l’economia globale sia ancora in ottima forma, a parte qualche dato meno brillante nel 1° trimestre.

Arriva però il momento in cui la stretta monetaria acquista più importanza rispetto a un effetto frenante dell’attività economica. Inoltre, le dinamiche geopolitiche e le prospettive di una guerra commerciale non sono state ancora del tutto scontate. I rendimenti del mercato, finora nel 2018, restano piuttosto piatti. Se la crescita rimane solida, potrebbero recuperare. Tuttavia, gli investitori dovrebbero valutare la possibilità che si prospetti un’estate ricca di delusioni, se i rendimenti USA continuano a salire oltre il 3%.

Chi ci guadagna?

Nel corso dello scorso anno, quasi tutte le categorie di investimento hanno registrato un deciso peggioramento del profilo di rischio e rendimento. Questo vale certamente per la maggior parte degli indici azionari e per le strategie obbligazionarie più popolari. Il rendimento degli investimenti è ciclico e oggi ci troviamo in una fase in cui i rendimenti sono, nel migliore dei casi, stabili ma la volatilità ha iniziato a salire. In base ai cicli precedenti, la situazione potrebbe peggiorare prima di migliorare. Sempre in base ai cicli precedenti, il livello minimo del ciclo di investimento (quando i rendimenti rettificati per la volatilità sono nel momento peggiore) solitamente coincide con un rallentamento dell’economia, se non con una recessione. In passato quando i rendimenti si trovavano sul livello minimo del ciclo, i tassi di interesse salivano. Il rendimento dei Treasury ha toccato nuovamente quota 3% questa settimana e la Federal Reserve sembra intenzionata ad alzare ancora i tassi di interesse, dunque questo scenario potrebbe ostacolare un miglioramento dei rendimenti degli investimenti nel breve termine.

La saga dei mercati emergenti

Il debito dei mercati emergenti è uno dei comparti che ha evidenziato un significativo deterioramento della performance dall’inizio dell’anno. Gli indici obbligazionari total return sono scesi di quasi il 5% e anche gli indici obbligazionari asiatici, che hanno riportato rendimenti relativamente più brillanti, sono scesi del 2,5-3,0%.

Quando si analizzano i mercati emergenti bisogna sempre tener conto di molteplici variabili. Tuttavia, ci sono due fattori fondamentali da considerare, ovvero il rialzo dei tassi di interesse negli Stati Uniti e il rafforzamento del dollaro. Inoltre, ci sono stati alcuni episodi nei singoli Paesi che, insieme, hanno gravato sul sentiment degli investitori (le nuove sanzioni in Russia, la richiesta di aiuto dell’Argentina al Fondo monetario internazionale, la lira turca sul minimo record rispetto al dollaro e l’intensificarsi delle tensioni politiche in Medio Oriente che hanno fatto salire il prezzo del petrolio).

Bei tempi …

Il periodo 2016-2017 è stato molto positivo per i mercati emergenti. Prima c’è stata la ripresa dal calo delle materie prime e dalla recessione trainata dalla Cina del 2015. Poi la crescita globale si è consolidata in una fase in cui i tassi di interesse globale erano bassissimi e il dollaro stabile. La conseguente fiducia ha fatto salire rapidamente le emissioni di debito dei mercati emergenti soprattutto in valuta estera, assorbite dagli abbondanti flussi di capitale verso questa asset class: oltre 430 miliardi di dollari diretti verso il debito dei mercati emergenti in due anni. Gli spread sul debito dei mercati emergenti in valuta forte sono scesi molto nel periodo; a seconda dell’indice di riferimento applicato, la flessione degli spread è tra i 250 e i 300 punti base.

E’ andata meglio ai Paesi esportatori di materie prime poichè i prezzi globali sono saliti mentre le economie basate sul settore manifatturiero hanno beneficiato della crescita del Pil globale. Inoltre c’era ottimismo per le riforme economiche in Paesi come Argentina e Brasile. Nel complesso, i saldi delle partite correnti sono scesi consentendo alle riserve in valuta estera di stabilizzarsi e alle valute di rafforzarsi.

… e i titoli sono diventati costosi

L’aumento del debito estero nei mercati emergenti li ha resi più vulnerabili, a parità di tutti gli altri fattori, nei confronti del rialzo del dollaro e dei tassi di interesse negli Stati Uniti. Non è una novità per i mercati emergenti. I Paesi con livelli elevati di debito estero in valuta forte sono particolarmente vulnerabili soprattutto quando c’è uno squilibrio economico, in termini di deficit delle partite correnti, problemi fiscali o inflazione elevata. Tra i Paesi con un debito pubblico denominato in valuta estera elevato ci sono l’Argentina (43,3%), la Colombia (34,3%), l’Ungheria e la Polonia, mentre il 68% del debito turco è denominato in valuta estera (obbligazioni societarie e titoli finanziari oltre a titoli di Stato). Dunque quando i tassi di interesse negli Stati Uniti salgono, il grado di interesse del debito dei mercati emergenti denominato in dollari diminuisce rispetto ai Treasury.

Rialzisti?

Perchè conservare o incrementare dunque una posizione nel debito dei mercati emergenti? La prima ragione è che questa asset class è diventata più conveniente. Gli spread oggi sono leggermente oltre le medie a lungo termine e il rendimento complessivo è molto più alto rispetto all’inizio dell’anno (circa l’8% per l’high yield dei mercati emergenti e il 5% per l’investment grade). Un portafoglio di obbligazioni dei mercati emergenti short duration oggi può produrre un rendimento tra il 4,5% e il 5,0% rispetto al 3,5% circa della fine dello scorso anno.

Dipende dai tassi USA

Lo scenario positivo per i mercati emergenti dipende dai progressi che si faranno su alcune questioni politiche (l’Argentina può ricevere rapidamente gli aiuti del FMI, la Turchia può migliorare la credibilità della sua banca centrale), dalla sostenibilità della propensione al rischio e dal rialzo contenuto dei rendimenti negli Stati Uniti. Se i rendimenti Usa e il dollaro restassero stabili, le obbligazioni dei mercati emergenti probabilmente potrebbero tornare a fare bene, considerato il sell-off e il rialzo degli yield. L’indice JP Morgan EMBI Diversified Sovereign è già sceso intorno al 5% finora quest’anno. L’indice non ha mai avuto una performance annuale peggiore di questa; persino nel 2009 il rendimento complessivo dell’anno era del -2,4% soltanto. Ma questo nasconde alcune perdite consistenti, come quella del 7,6% nel 3° trimestre 2013 (taper tantrum) e la perdita del 18% nel 4° trimestre 2008.

Rumore

Si tratta dunque di segnali che il mercato sta ignorando? Negli ultimi anni le preoccupazioni non sono mancate, ma i bassi tassi di interesse, il Quantitative Easing e il graduale miglioramento della crescita globale hanno sostenuto i rendimenti del mercato. Forse sto dando eccessiva importanza ad alcuni segnali, ma in genere non è un buon segno che una grande economia emergente decida di chiedere aiuto al Fondo Monetario, nè che si formi in Italia un governo populista fortemente concentrato sulla spesa e deciso a intraprendere un percorso contrario all’ortodossia di Bruxelles.

Ricordatevi che Draghi disse che avrebbe fatto “tutto quanto necessario” per salvare l’euro principalmente per quello che stava accadendo in Italia nel 2012. Potrebbe essere di nuovo l’Italia a porre la sfida più difficile per la Banca Centrale Europea che cerca il modo di allontanarsi dai tassi di interesse negativi. A parità di valuta, i titoli di Stato italiani a lungo termine sono i più convenienti tra i titoli sovrani del G10. E c’è una ragione. Al secondo posto ci sono i Bund tedeschi perchè, con la copertura in dollari, il loro rendimento è superiore ai Treasury USA. I dati sulla crescita sono scesi nel 1° trimestre e l’inflazione non sembra ancora aver preso piede nelle principali economie. Mi piace dunque l’idea di una long duration nel portafoglio obbligazionario come forma di copertura nel caso in cui quest’estate si passi da una fase di propensione al rischio a una di avversione al rischio.


Chris Iggo – CIO Obbligazionario – AXA Investment Managers