Elezioni di mid-term Usa: i quattro scenari possibili

Marco Piersimoni -

Dalla composizione del Congresso dipende il futuro della Fed e la direzione della politica monetaria. Oltre l’inasprirsi del commercio mondiale, da cui deriverebbe la stagflazione

Le elezioni di medio-termine Usa sono un evento decisivo per una serie di motivi. Innanzitutto, rappresentano un banco di prova per il voto del 2020, illustrando la direzione che assumerà il Partito Democratico; oltre a questo, sono l’elemento che orienterà la politica economica americana nel prossimo futuro. Esiste ancora un certo margine di incertezza, in quanto i sondaggi sulle intenzioni di voto e sul gradimento verso il presidente raccontano di un vantaggio abbastanza consistente da parte del Partito Democratico, con un recupero recente dei Repubblicani.

Incognita Fed

La composizione del Congresso sarà cruciale per determinare il futuro della Fed. Dal 2015 è ferma alla Camera una proposta di “Oversight reform and modernization Act” della banca centrale Usa, una riforma in parte dovuta, considerando che l’atto Costituente è stato promulgato nel 1913 e mai rinnovato. Tuttavia, in questa proposta di legge si prevedono misure molto singolari, la cui ratio è di mettere la Fed sotto tutela del Congresso e delle Autorità governative. Ad esse infatti l’istituto dovrà, dopo ogni riunione, comunicare le motivazioni delle proprie scelte dimostrando che sono coerenti con la regola di politica monetaria; in caso di esito negativo, ci saranno sette giorni per spiegare le deviazioni ed eventualmente per implementare manovre correttive.

Se il Congresso dovesse rimanere saldamente in mano Repubblicana, l’Atto di riforma della Fed potrebbe proseguire il suo percorso verso la Camera Alta, configurando uno scenario di rischio importante a cui il mercato reagirebbe in maniera del tutto razionale, ovvero richiedendo maggiori premi per il rischio, in particolare sul dollaro, sui bond Usa, sull’inflazione e sulle attività rischiose.

Questo discorso s’innesta sull’attualità della politica economica, a partire dalle azioni che metterà in campo la Fed al fine di proseguire la riduzione del bilancio programmata. Oggi il bilancio è di circa 4 trilioni di dollari, e procedendo per un anno con un taglio di 50 miliardi al mese si otterrebbe una riduzione discesa fino a tre trilioni e mezzo nel terzo trimestre del 2019. Pictet AM si attende che la Fed riveli le sue intenzioni in merito tra dicembre 2018 e marzo del 2019. Al contrario, sono del tutto trasparenti le politiche di tasso: dopo 8 rialzi, i Dots della Fed segnalano un chiaro sentiero di ulteriori rialzi nel 2020 e nel 2021. La traiettoria prevista mostra anche il cosiddetto “overshooting”, ossia la Fed pensa che ci sia necessità di avere tassi maggiori rispetto a quelli di equilibrio di lungo termine. Overshooting che il mercato non sconta: questa discrepanza e l’incertezza sul bilancio hanno implicazioni sugli investimenti attraverso la curva dei tassi, il rialzo del dollaro e le attività rischiose. Lo scenario politico si intreccia quindi con la congiuntura.

I 4 scenari elettorali di Pictet Asset Management

Al fine di delineare i possibili esiti elettorali, è necessario comprendere quali meccanismi regolano il procedimento di rinnovo di Senato e Camera. Il Senato, composto da cento senatori – ogni Stato ne elegge due – si rinnova per un terzo ogni due anni. In questa tornata elettorale si vota in 35 Collegi, di cui solo nove sono Repubblicani. Semplificando, i Repubblicani hanno molto poco da perdere dei loro 51 senatori: perché 42 saranno confermati in automatico. E perché dei 9 seggi repubblicani per i quali si vota il 6 novembre, solo due sono in dubbio, e uno solo di questi seriamente contendibile, in Missouri. La probabilità che i Repubblicani conservino la maggioranza al Senato è dunque stimata intorno all’83%. Di contro, sono molto alte le probabilità che la Camera finisca in mani Democratiche (anche in questo caso oltre l’80%). Infatti, la Camera si rinnova ogni due anni per intero e non è soggetta alla stortura elettorale del Senato, ma i distretti sono disegnati sulla base di una più fedele proporzione demografica attribuita agli stati.

Gli scenari possibili:

  • Lo scenario principale, che ha una probabilità del 60%, è quello in cui la Camera finisce in mani Democratiche e il Senato resta a maggioranza Repubblicana. In questo caso, il Congresso risulterebbe ingolfato dalle richieste di inchieste da parte della Camera Democratica nei confronti dell’amministrazione. Punti di sintesi probabilmente potrebbero esserci sul tema delle infrastrutture, rispetto a cui i democratici possono essere collaborativi con i piani del governo. Quello che invece gli oppositori di Trump vedono come il fumo negli occhi è l’eventuale manovra fiscale di taglio delle tasse 2.0. Si tratta tuttavia di uno scenario che non mette in discussione l’autonomia della Fed, in quanto l’Atto di riforma della banca rimarrebbe sulla linea morta del Congresso, con l’implicazione di rasserenare il clima dal punto di vista obbligazionario e contribuire a un po’ di debolezza del dollaro, favorendo le attività finanziarie soprattutto dei Paesi emergenti. I farmaceutici, con Trump e il Partito Democratico estremamente in sintonia sul controllo dei prezzi dei farmaci, subirebbero forti pressioni.
  • Lo scenario più interessante dal punto di vista della politica economica sarebbe invece la conferma del Congresso attuale a maggioranza Repubblicana per entrambe le Camere (che ha secondo i numeri una probabilità di appena il 13%). L’Atto di riforma della Fed verrebbe riproposto, la riforma fiscale 2.0 verrebbe certamente rimessa in agenda, sul commercio ci sarebbe un’iniziativa ancora più spinta così come sulla deregolamentazione. Gli impatti per i mercati nel brevissimo termine sarebbero positivi per alcuni settori americani come le small cap, le infrastrutture e i ciclici. Si tratterebbe di un rally di breve respiro perché il timore che la Fed venga messa sotto sorveglianza prevarrebbe provocando forti preoccupazioni. Anche perché mentre si definiscono i termini della riforma, la Fed si vedrebbe di fronte un’altra manovra fiscale che non potrebbe accomodare così come non ha accomodato l’ultima. Con la disoccupazione al 3,7% e la capacità utilizzata a livelli roboanti, la Fed non tornerebbe indietro sui tassi ma proseguirebbe in maniera molto chiara e netta sul sentiero dell’overshooting. Questo avrebbe un impatto certamente doloroso sulle obbligazioni, genererebbe la ricostituzione dei premi di rischio, senza garanzia di un dollaro forte proprio a causa dell’ingerenza dell’amministrazione nell’operatività della banca centrale. Questo sarebbe uno scenario non particolarmente brillante per gli asset rischiosi, né per gli asset obbligazionari.
  • In una posizione intermedia (e con una probabilità del 21%) si pone lo scenario in cui sia Camera che Senato passano a maggioranza Democratica: in questo caso a soffrire sul fronte obbligazionario sarebbero le obbligazioni corporate domestiche insieme al dollaro, mentre i mercati emergenti, sia sul fronte obbligazionario che azionario avrebbero buone possibilità, mentre immobiliare e farmaceutici subirebbero una forte penalizzazione sui listini.
  • L’ultimo e meno probabile scenario (6%) è quello in cui a una Camera Repubblicana fa fronte un Senato Democratico: a uscirne vincenti in questo caso sarebbero l’obbligazionario Usa, sia governativo che corporate, e nell’azionario emergenti e infrastrutture.

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Dopo le elezioni: il protezionismo può causare uno shock stagflattivo

Dopo le elezioni il commercio tornerà a essere tema centrale del dibattito: la decisione di Trump su come comportarsi con la Cina prenderà vigore o meno a seconda del suo risultato e si tratterà di una decisione che potrà avere effetti dirompenti sui mercati.
Se finora invece le tensioni commerciali sono state digerite senza troppi scossoni è perché probabilmente non sono state ancora sufficienti a far deragliare la crescita economica. La spiegazione è ben rappresentata da due numeri: innanzitutto, secondo l’assunto di base di Trump, c’è una sperequazione di fondo ormai intollerabile sui livelli di tassazione nel commercio mondiale. In dettaglio, la Cina è entrata nel WTO nel 2002 con i vantaggi concessi ai Paesi emergenti di cui ancora beneficia nonostante sia a ogni effetto un’economia emersa: le tariffe medie sono del 10%, contro il 5% dell’Europa e il 3% dell’America. Queste sperequazioni vanno senza dubbio riviste, ma per valutarne gli effetti è necessario prima analizzare quanto l’America dipenda dalle importazioni cinesi. L’America importa circa 2300 miliardi di dollari dal resto del mondo, principalmente da Cina e Unione Europea. Per il momento sono state minacciate tariffe su circa un terzo di questo valore, ma è stato implementato poco più del 10%, ovvero su 250 miliardi di dollari di import (di merci per lo più cinesi).

Chiaramente il resto del mondo non è rimasto fermo a guardare: l’export americano ammonta a 1500 miliardi di dollari principalmente verso Europa, Canada, Messico. Anche in questo caso, le tariffe implementate dal resto del mondo nei confronti degli Stati Uniti sono state su 135 miliardi, ovvero circa il 10% del totale. Dunque, in sintesi, l’America ha imposto dazi e tariffe sul 13% del proprio import e ha subìto dazi e tariffe sul 10% del proprio export. Immaginando che le tariffe si ripercuotano sulla bilancia commerciale con un’elasticità pari a 1 (un livello che consideriamo neutrale) il danno inferto alla Cina da dazi e tariffe americane per il momento ammonta allo 0,3%; mentre quello dal resto del mondo all’America è di -0,1%. Riassumendo, tutta la diatriba commerciale ha causato un danno economico diretto negli USA prossimo allo zero, da cui deriva la relativa calma nei mercati. Certamente, se dovesse esserci un’escalation, ad esempio se non si trovasse l’accordo atteso per inizio 2019, le tariffe nei confronti della Cina passerebbero immediatamente dal 10 al 25% e questo avrebbe un impatto decisamente significativo, fino all’1% sul Pil cinese.

Non solo. L’esercizio fatto dal Fondo Monetario e validato anche dalla Banca Centrale Europea rivela che se il resto del mondo dovesse reagire di conseguenza al rialzo delle tariffe Americane, questo avrebbe un impatto sulla crescita mondiale pari al -2,5%, che equivale a una recessione globale. La conclusione è che se dovesse accelerare la guerra commerciale il danno serio e duraturo sarebbe per la crescita, dopo che ad essere attaccata è stata l’inflazione. Il protezionismo è uno shock stagflattivo, ossia comporta una stagnazione economica con maggior inflazione.


Marco Piersimoni – Senior Investment Manager – Pictet Asset Management