Tre temi d’investimento per il 2019

Marco Bonaviri -

Alla fine di ogni anno gli esperti finanziari pubblicano le loro previsioni per l’anno seguente. Dopo un anno 2018 prodigo di sorprese e colpi di scena, cosa ci riserva il 2019? Abbiamo identificato tre grandi temi che influiranno in misura significativa sulle evoluzioni dei mercati finanziari nel corso del prossimo anno.

La fine della straordinarietà degli USA

Il 2018 è stato caratterizzato dall’eccezio-nalità degli Stati Uniti rispetto al resto del mondo, dal punto di vista tanto economico quanto borsistico. In particolare, la crescita statunitense è stata alimentata dallo stimolo fiscale votato a dicembre 2017, che ha sostenuto la fiducia degli investitori e ha inciso per circa il 10% sulla crescita degli EPS, attesa al 24,2% . L’anno prossimo, l’effetto di stimolo derivante dalla riduzione delle imposte svanirà e il progressivo inasprimento delle condizioni finanziarie si tradurranno in un restringimento del differenziale di crescita degli Stati Uniti rispetto al resto del mondo. Gli strateghi ipotizzano già il convergere della crescita dei risultati delle imprese tra le varie aree geografiche (con l’eccezione del Giappone) intorno all’8%-10% . Le prime avvisaglie di un rallentamento dell’economia statunitense iniziano a manifestarsi, con la flessione del mercato immobiliare e il declino degli indicatori anticipatori dell’attività manifatturiera. Il consensus ipotizza una contrazione della crescita del PIL dal 2,9% nel 2018 al 2,6% nel 2019 e all’1,9% nel 2020.

Secondo le stime di Goldman Sachs, l’economia statunitense dovrebbe comunque restare relativamente immune alle conseguenze nefaste della guerra commerciale con la Cina . Invece, nella zona Euro il deterioramento delle condizioni economiche è già in corso ed è probabile che a breve si assisterà a un’inversione di tendenza. Quanto alla Cina, le autorità sembrano pronte a sostenere l’economia al fine di garantire un atterraggio morbido e un tasso di crescita minimo del 6,1%.

Dal “rumore politico” alla politica come fattore determinante dei mercati finanziari

Chi investe negli attivi europei è abituato ormai da tempo al “rumore politico” che nutre le incertezze e incide sui rendimenti. Segnaliamo tuttavia che l’intensità del fattore politico è cresciuta quest’anno in Europa, al punto da diventare una forza plasmante dei mercati finanziari. Le incertezze politiche hanno minato la fiducia e il sentiment, esacerbando il rallentamento economico iniziato nel primo trimestre del 2018. Per l’anno prossimo prevediamo il protrarsi (se non addirittura l’aggravarsi) delle incertezze politiche. L’effettivo divorzio tra Regno Unito e UE (29 marzo) o il prolungamento del periodo di transizione genereranno senza alcun dubbio episodi di stress sui mercati. Quanto all’Italia, nutriamo seri dubbi sull’effettiva durata del governo populista fino a fine 2019 . In occasione delle elezioni parlamentari europee (23-26 maggio), per la prima volta vi sono grosse probabilità di assistere a un successo dei partiti euroscettici tale da perturbare profondamente il processo legislativo. Il voto si preannuncia fin d’ora come un referendum sul progetto europeo e le ripercussioni potrebbero farsi sentire ben al di fuori dell’assemblea, a livello delle istituzioni europee e delle politiche nazionali. Infine, la nomina del successore di Mario Draghi alla guida della BCE potrebbe avere un’importanza cruciale in un momento chiave per la politica monetaria europea.

Negli Stati Uniti, il motore principale di Donald Trump sembra essere l’ambizione di ottenere un secondo mandato. Le effettive possibilità di successo dipendono essenzialmente da due fattori: il tasso di popolarità e lo stato dell’economia al momento delle elezioni a novembre 2020 . Trump farà quindi tutto il necessario per sostenere la congiuntura ed evitare una recessione entro tale scadenza. Resta ancora da capire come questa ambizione influirà sullo sviluppo delle relazioni commerciali con la Cina. Da un lato, il continuo accanimento contro il colosso asiatico permette al Presidente di riscuotere consensi, dall’altro vi è la volontà di contenere i danni collaterali sull’economia.

Atterraggio morbido per l’economia cinese

Alla fine del 2016, le autorità cinesi hanno messo in atto una serie di misure volte a rallentare il credito e l’indebitamento, in una precisa ottica di contenimento degli eccessi nell’economia. L’espansione del credito ha così iniziato a decelerare nel 2017, ponendo un freno alla massa monetaria e, in definitiva, agli investimenti, che costituiscono la base della crescita cinese. Con la trasmissione progressiva di queste misure, la crescita è rallentata dal 6,9% nel 2017 al 6,6% nel 2018, e il trend dovrebbe continuare nel 2019 con una crescita attesa al 6,2%. La guerra commerciale con gli Stati Uniti e il suo impatto sulla fiducia e sul sentiment hanno inoltre contribuito a esacerbare le debolezze interne.

Tuttavia, le autorità cinesi, pragmatiche e reattive, hanno rapidamente riconosciuto i rischi per l’economia e nel secondo semestre 2018 hanno messo in atto una serie di misure fiscali e finanziarie destinate a stimolare la domanda domestica. Pur mantenendo l’obiettivo di riduzione del debito strutturale e senza prevedere un piano di rilancio massivo, l’amministrazione cinese rimane determinata a sostenere l’economia. Il piano quinquennale 2016-2020 si basa infatti su una crescita annuale media del PIL reale di almeno il 6,5% sul periodo, il che implica un tasso di crescita minimo del 6,1% per il 2019 e il 2020 per raggiungere l’obiettivo. Se le tensioni commerciali con gli Stati Uniti dovessero protrarsi e degenerare, il costo sulla crescita sarebbe limitato allo 0,5%, secondo diverse stime, e dovrebbe essere attenuato dalle misure di rilancio già in atto. Pechino avrà il difficile incarico di vegliare sul fragile equilibrio tra sostegno dell’economia a scapito dell’indebitamento e ridimensionamento del debito con il rischio di pesare sulla crescita. Se l’economia dovesse rallentare ulteriormente, il governo cinese dispone comunque di un certo margine di manovra per incrementare le politiche accomodanti.

Come posizionare i portafogli?

Negli Stati Uniti, la combinazione di stretta finanziaria e rallentamento del ciclo economico dovrebbe penalizzare le imprese fortemente indebitate, provocando un calo dell’affidabilità creditizia e un aumento dei tassi di insolvenza. Occorre quindi prudenza a livello del credito statunitense, tanto più che le società a stelle e strisce (ad esclusione del settore finanziario) presentano un livello di indebitamento (debito netto/EBITDA) ben superiore al picco pre-crisi del 2007. Attento anche per quanto riguarda le azioni US, che potrebbero trovarsi in difficoltà per effetto del rallentamento della crescita degli utili e dell’eventuale revisione al ribasso di questi ultimi. Inoltre, in un contesto economico più difficile, la struttura del mercato americano, fortemente dominato dai settori ciclici e dalle società growth, è destinata ad accusare il colpo. Un’esposizione a società di qualità, caratterizzate da bilanci solidi, margini stabili, rendimenti di riacquisto elevatie volatilità inferiore, potrebbe però consentire al portafoglio di affrontare più efficacemente queste acque agitate. In Europa, pur ipotizzando un’inflessione economica nel corso dell’anno e benché la valorizzazione relativa delle azioni europee resti interessante, troviamo scoraggiante il premio di rischio politico. Le azioni emergenti oscillano a priori, in funzione dell’andamento del dollaro statunitense, del prelievo di liquidità a livello globale e delle politiche macroeconomiche cinesi. Raccomandiamo quindi grande agilità e suggeriamo ai gestori di portafogli che investono in più classi di attivi di concentrare gli sforzi sull’allocazione tattica l’anno prossimo.


Marco Bonaviri – Senior portfolio manager – Banca Reyl