I’ll be home tonight (Intervista a Irene Sofia Comi)

Giulia Ronchi - Artribune -

Il progetto “The House” nasce da un’idea di Michela Genghini, architetta e appassionata d’arte che ha deciso di aprire il suo spazio privato, che è al tempo stesso abitazione e studio di architettura, all’arte emergente e alla ricerca.

Quando è nata la nostra collaborazione le ho proposto di inaugurare la stagione con una doppia personale dal titolo I’ll be home tonight. Da subito la mostra le è piaciuta moltissimo, l’ha accolta con entusiasmo… Ed eccoci qui!

Qual è il contesto che ospita la mostra? Come è fatto lo spazio?

Che dire: lo spazio è molto stimolante, tanto per la sua relazione con il contesto esterno – un quartiere famoso per le facciate in stile liberty – quanto per la sua natura duplice di abitazione privata e di studio d’architettura. Un solo ingresso, due mondi diversi. Eppure, come forse è naturale che sia, si respira nella casa un’armonia, quel sapore di ricercatezza e attenzione al dettaglio dove non può essere altro che l’interior design a fare da fil rouge. Ma in assoluto – se vuoi sapere cosa caratterizza lo spazio – è necessario citare prima di tutto l’arco, elemento strutturale che ricorre in più stanze dell’appartamento.

Come si svolgerà il progetto? Quale sarà il calendario?

Il progetto è pensato per essere un luogo di dialogo che dia vita ad occasioni di incontro all’interno dell’ambiente domestico. L’idea è di dare vita allo spazio attraverso eventi e mostre che attivino il luogo e soprattutto restituiscano la profondità delle ricerche proposte all’interno del programma, permettendo un approccio più intimo e familiare alla poetica degli artisti e alle tematiche proposte, ogni volta diverse. Per il momento, per questo primo anno, abbiamo pensato a due mostre: una è I’ll be home tonight, l’altra – la seconda – è prevista per i mesi novembre e dicembre.

Come gestirete il fatto che la mostra si svolge in uno spazio abitato? Come e quando si potrà visitarlo?

Sicuramente il fatto che si tratti di una dimora, una vera e propria casa vissuta nel quotidiano e ogni mese dell’anno, rende questo contesto espositivo molto personale in termini di esperienza, e di conseguenza anche in termini di fruizione. Oltre alla giornata di inaugurazione, la mostra sarà aperta al pubblico un giorno alla settimana o visitabile su appuntamento.

Cosa significa per te esporre una mostra in uno spazio abitato, personale, domestico? È la prima volta?

Ho già lavorato in contesti legati ad una committenza privata, ma non mi sono mai misurata prima con uno spazio propriamente abitato e quotidianamente vissuto dove si respira un’atmosfera reale, fatta di elementi che appartengono ad un lessico familiare, per usare le parole di Natalia Ginzburg. Nella mia ricerca, secondo un principio di aderenza, è determinante una riflessione sul luogo in cui si espone il progetto, tanto più quando, come in questo caso, la mostra lo abita e se ne impadronisce per un tempo determinato, senza farlo proprio ma vestendolo, quasi l’abitazione diventasse un indumento. Dati i presupposti e rifacendomi alla tua domanda, lavorare in uno spazio abitato, personale e domestico significa lavorare per accostamenti o giustapposizioni tra pezzi di vita reale e opere d’arte, restituendo un clima intimo in cui sentirsi sicuri e accolti, che non tradisca l’habitat di partenza e non ne stravolga le abitudini o più banalmente gli oggetti che lo compongono, ma tutto al contrario, che diventi parte di esso.

Chi sono gli artisti invitati per la prima mostra? Perché li hai selezionati?

La prima mostra è la doppia personale di Hermann Bergamelli e Fabio Ranzolin. Sono due artisti apparentemente agli antipodi per scelte formali e processi creativi – il primo più materico ed istintivo, il secondo più vicino ad una matrice puramente concettuale – ma sono accomunati da riflessioni stringenti e punti di partenza comuni. Le poetiche di Ranzolin e Bergamelli si intersecano per dicotomie, viaggiano parallelamente. Manipolatori di stimoli, leggono il presente attraverso una sensibilità affine. I loro lavori tessono una fitta trama di corrispondenze: molti degli aspetti legati alla loro ricerca si ritrovano nell’idea di intimità e al tempo stesso di connessione e allontanamento dalla società che li circonda, così come la loro scelta di lavorare con materiali di seconda mano o oggetti prelevati dalla città, intrisi di storia e memorie altrui.

Per questi motivi li ho scelti: è davvero forte nella loro poetica l’aderenza al contesto domestico, da intendersi come rifugio in cui è possibile portare con sé e rielaborare le contraddizioni del nostro quotidiano. Per una mostra che vuole riflettere sull’idea di casa come micromondo – un rifugio labile, uno spazio invisibile ma valicabile, che ha sede proprio in un contesto vissuto che ha deciso di aprirsi al mondo – mi è sembrato ideale riflettere sui concetti di interno ed esterno, privato e pubblico, personale e collettivo, restituendo questa visione attraverso i loro innesti visivi.

Ci saranno anche degli eventi collaterali?

Assolutamente sì! Si tratta anzi di uno dei punti di forza del progetto. Per questa prima mostra, dopo la pausa estiva si riaprirà a fine settembre con un calendario di iniziative che approfondiranno le opere e le tematiche di I’ll be home tonight, mettendo al centro gli artisti e le loro voci. A proposito degli eventi, un concetto cui vorrei rifarmi è l’idea di “godimento”: la scelta di aprire lo spazio, oltre che su appuntamento, anche ad altri momenti d’incontro vuole scandire un ideale ritmo all’interno della mostra. Si tratta di un palinsesto pensato proprio per riproporre quel che avviene in un tipico spazio familiare attraverso riflessioni, confronti e rivelazioni – il tutto seduti attorno a un tavolo e, perché no, davanti a un buon bicchiere di vino.

Ci sono altre cose che vuoi sottolineare?

Lascerei un po’ di curiosità e qualcosa di non detto. Andando un po’ fuori tema e (non lo nego) con un pizzico d’induzione, mi piace immaginarmi che chi verrà alla mostra, lungo la via, si metta le cuffiette e ascolti “Casa mia” dei Matia Bazar, un pezzo del 1984 basato su una poesia postmoderna dell’architetto Alessandro Mendini. Perché mai? Direte voi. Ne riparleremo, forse… Vi aspettiamo a The house!