Pronti per un nuovo paradigma di investimento

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Le distorsioni di breve durata provocate dai lockdown imposti con la pandemia hanno riguardato numerosi settori, tra cui i trasporti, i semiconduttori e il mercato del lavoro. Secondo l’opinione di consensus, tali distorsioni si risolveranno rapidamente. Noi non ne siamo convinti. Crediamo che molte di tali problematiche non si risolveranno fino al 1° semestre del 2022, forse anche nel 1° semestre del 2023. Aspetto ancor più importante, la rotazione del mercato potrebbe nascondere un fenomeno di maggiore rilevanza. Tali sviluppi potrebbero rappresentare l’inizio di un cambio di regime per le economie e i mercati, col passaggio da un periodo di crescita bassa ma stabile, non inflazionistica, a uno scenario caratterizzato da una crescita più volatile, in abbinamento a un’inflazione più persistente. Alla base di questo cambio di paradigma ci sono numerosi fattori, complessi e interconnessi.

La pandemia da COVID-19

Oltre le dislocazioni a breve e medio termine, la pandemia e gli interventi del governo correlati potrebbero aver prodotto cambiamenti nella nostra società civile relativamente al grado di intervento governativo desiderato dai cittadini, modificando i confini considerati accettabili tra stato e individuo. Lo si vede nella richiesta di un maggiore attivismo fiscale che vada oltre gli aiuti temporanei, come le forme di cassa integrazione, e coinvolga interventi più a lungo termine come gli investimenti infrastrutturali, la riforma del settore pubblico, nuovi accordi commerciali, una maggiore ridistribuzione del reddito e il sostegno del governo per un aumento dei salari della classe operaia (in particolare nel Regno Unito). Ciò si riflette nell’urgenza attribuita ai piani di investimento in infrastrutture promossi dallo stato, che vanno a sommarsi alla necessità di investire nella digitalizzazione e nella decarbonizzazione, oltre all’aumento delle imposte e dei salari.

Dinamiche demografiche

In un libro molto interessante intitolato “The Great Demographic Reversal”1, il Professor Charles Goodhart (London School of Economics) e Manoj Pradhan (Talking Heads Macro, ex Morgan Stanley) illustrano gli effetti profondi delle dinamiche demografiche sui mercati del lavoro globali, sui salari, sulla disuguaglianza e sulla crescita economica. Scrivono che negli ultimi 40 anni, a partire dal 1980 circa, gli effetti combinati dell’invecchiamento della popolazione e dell’ingresso nella forza lavoro della generazione dei baby boomer, l’aumento della partecipazione femminile, l’apertura della Cina e l’accesso al sistema commerciale globale, oltre alla caduta del muro di Berlino, hanno più che raddoppiato le dimensioni effettive del mercato del lavoro globale. Ciò ha inciso in particolare sulle parti più esposte agli scambi commerciali globali e ha ridotto molto i salari nelle economie avanzate in Europa e negli Stati Uniti. Tali dinamiche hanno gravato soprattutto sui lavori tradizionalmente riservati alla classe operaia, hanno alimentato le disuguaglianze ma sono anche servite a ridurre molto l’inflazione, mettendo fine alla spirale salari/prezzi degli anni ‘70 e, in ultima analisi, hanno determinato la disinflazione del nuovo millennio con la flessione o l’immobilità dei salari. Secondo Goodhart e Pradhan, tali fattori demografici hanno esaurito il loro corso e inizieranno a invertire la tendenza. Ciò dovrebbe far aumentare il potere di acquisto delle parti del mercato del lavoro occidentale esposto a tali tendenze, mettendo fine al periodo di pressioni al ribasso sui salari correlati agli scambi commerciali globali. L’aumento dei salari e la riduzione della disparità di reddito potrebbero favorire la stabilità sociale, se i guadagni non venissero ridotti dall’inflazione ma esercitassero una pressione positiva al rialzo sull’inflazione. Lo stiamo già vedendo, per esempio, nella mancanza di autisti di veicoli pesanti in molti Paesi e nella carenza di manodopera nelle catene di distribuzione, nella vendita al dettaglio e in alcune aree del settore sanitario.

La transizione energetica

I policymaker hanno enfatizzato e illustrato i vantaggi economici derivanti dal necessario azzeramento delle emissioni nette. Tra gli altri benefici, si eviteranno i costi correlati ai cambiamenti climatici e si farà ricorso a fonti di energia con un costo marginale contenuto, come quella solare ed eolica. A nostro giudizio, ciò che però non sono riusciti a spiegare o ad analizzare è il costo effettivo/complessivo derivante dalla creazione di un sistema energetico solido e resistente in grado di immagazzinare energia e di avere scorte sufficienti quando le fonti rinnovabili non bastano. Il costo effettivo di un sistema dell’energia solido e resistente, con le scorte grazie alle batterie e all’idrogeno verde e con il carico di base del nucleare, probabilmente sarà molto più alto di quello preventivato, soprattutto in alcuni Paesi. È altresì probabile che il costo per la creazione di un sistema solido e resistente basato su fonti di energia rinnovabili alla fine sarà pagato da consumatori e industrie attraverso un aumento dei costi dell’energia. Forse entro il 2040-2050 le economie avranno sistemi energetici con un costo marginale contenuto. Nel lungo periodo di transizione però sarà probabilmente molto più costoso costruire e gestire i sistemi energetici. Inoltre, i costi per l’abbattimento e la riduzione delle emissioni di carbonio per una serie di attività industriali, come l’acciaio, il cemento, i prodotti chimici e l’aviazione, saranno verosimilmente molto alti nelle fasi iniziali della transizione e incrementeranno parecchio i costi. Non stiamo assolutamente mettendo in dubbio la necessità della transizione energetica volta all’azzeramento delle emissioni nette; tuttavia, crediamo che i policymaker dovrebbero condurre un’analisi molto più approfondita, oltre a essere chiari e trasparenti con i consumatori e gli elettori in merito ai costi. L’azzeramento delle emissioni nette potrebbe essere anche un processo che genera inflazione.

I costi dell’energia

Nella transizione energetica prevediamo costi molto più alti per petrolio, gas ed elettricità. Gli investimenti fissi nel gas e nel petrolio su scala globale dal 2014 sono scesi di oltre il 60%, nonostante la domanda di gas e petrolio non sia diminuita e probabilmente non diminuirà a livello mondiale per diversi anni ancora, più a lungo forse per il gas. È improbabile che le società integrate nel campo dell’energia investano seriamente nel gas e nel petrolio, in particolare nell’esplorazione degli idrocarburi (e certamente vengono incoraggiate a comportarsi in tal senso), ma l’aumento della domanda abbinato alla riduzione dell’offerta farà probabilmente salire i prezzi. A nostro giudizio, politici e commentatori nell’emisfero nord/occidentale dovrebbero tenere presente che la crescita della domanda di energia oggi arriva da Paesi che non appartengono all’Organizzazione per lo Sviluppo e la Cooperazione Economica (ovvero in via di sviluppo) che sono indietro nel percorso di sviluppo economico (con un Pil pro capite più basso) rispetto all’Europa, ai Paesi sviluppati in Asia e agli Stati Uniti, e che probabilmente non vogliono sentire paternali. Inoltre, la transizione energetica sta spingendo (giustamente) molte nazioni a ridurre gradualmente la generazione di energia alimentata a carbone, che però la sostituiscono con il gas a integrazione delle fonti intermittenti rappresentate dal vento e dal sole senza riflettere bene sull’origine del gas. In ultima analisi, crediamo che la soluzione sia un sistema energetico solido e resistente che abbina le fonti rinnovabili con soluzioni di immagazzinamento dell’energia (batterie, idrogeno verde, ecc.). Tuttavia, nel periodo di transizione la domanda di gas probabilmente salirà per via dell’offerta carente e della domanda in aumento. Crediamo che sia opportuno riconoscere tali sviluppi, anziché far gravare sulle economie prezzi del gas elevati che si possono evitare, laddove non si intravedono facili alternative nel breve termine.

Outlook

Le implicazioni per le economie e gli investimenti sono numerose, complesse e interconnesse. Pur non disponendo di tutte le risposte, ipotizziamo che per le economie sviluppate si profili un periodo di investimenti ingenti per facilitare la necessaria transizione energetica, la digitalizzazione e un maggiore attivismo fiscale da parte dei governi. Nel frattempo, ci aspettiamo un’inflazione più alta e più volatile, mentre le economie sviluppate entreranno in una fase di crescita dei salari, aumento dei costi dovuto all’invecchiamento della popolazione e incremento dei prezzi dell’energia. Ciò ha profonde implicazioni per i portafogli di investimento, con l’inflazione che erode il rendimento, tassi di sconto potenzialmente più alti che fanno scendere le valutazioni e la sovraperformance di settori/titoli diversi a causa dei differenti fattori trainanti. Le principali tendenze strutturali, per esempio l’ascesa delle classi medie in Asia, la digitalizzazione, la decarbonizzazione, la convergenza del mondo offline con quello online e il passaggio dai contanti ai pagamenti digitali, verosimilmente persisteranno e potrebbero anche intensificarsi. Ci sarà forse una maggiore dispersione dei rendimenti azionari, per cui bisognerà essere in grado di individuare le azioni veramente in crescita e rivoluzionarie. Potrebbe essere finita l’epoca in cui i rendimenti obbligazionari persistentemente bassi fanno salire le valutazioni per i titoli growth, di qualità e a bassa volatilità. Potremmo concludere che tale scenario favorirà la performance dei titoli value rispetto a quelli growth, ma significherebbe non tenere conto del profondo impatto che avranno i cambiamenti tecnologici e le nuove tendenze in grado di rendere obsoleti molti titoli considerati “value” o accelerare il loro declino. A nostro giudizio il futuro non sarà né growth né value, ci saranno molte più sfumature e molto dipenderà dal singolo titolo.