GAM: Cina – verso un riequilibrio della struttura dell’economia
La Banca del Popolo cinese ha sorpreso tutti con una manovra “jumbo”: ha tagliato il tasso delle linee
di credito a medio termine (dal 2,3% al 2%, è la riduzione maggiore dal 2016), ha reso più lasche le
regole sulle riserve obbligatorie, ha annunciato forme di supporto alle imprese per il riacquisto di azioni
proprie, di fatto misure finalizzate al sostegno del mercato azionario.
Se quello che succede a Las Vegas resta a Las Vegas, quello che succede in Cina riguarda tutto il
mondo. E le mosse recenti della Banca del Popolo interessano massimamente, per le loro ricadute
sull’economia globale e perché si discostano dalle linee guida emerse nell’ultimo Plenum.
La linea ufficiale annunciata a luglio era quella di dosare con parsimonia i sostegni finanziari
all’economia, il Politburo di settembre ha invece affiancato la banca centrale annunciando l’aumento
della spesa per contrastare la discesa dei prezzi degli immobili. L’iniziativa congiunta di interventi
monetari e fiscali è la risposta alla lunga serie di segnali di allarme che si sono fatti via via più numerosi
e preoccupanti: il crollo dei prezzi delle case, l’incertezza che frena gli investimenti e scoraggia i
consumi, gli investimenti esteri diretti in marcata decelerazione.
L’azione muscolare ha trovato il favore dei mercati, gli indici asiatici sono balzati in alto, lo Shanghai
Composite è salito ai massimi di tre mesi, guidato sorprendentemente dal settore immobiliare e dai
consumi.
Ma le politiche monetarie non sono efficaci nel risolvere problemi di natura strutturale come sono quelli
che frenano l’economia cinese: il modello di sviluppo è obsoleto, le dinamiche demografiche avverse, i
consumi interni sono insufficienti, gli investitori domestici sono cauti, quelli esteri diffidenti. Dietro alla
crisi del settore immobiliare ci sono migliaia di famiglie indebitate, la loro capacità di spesa è
necessariamente limitata ma anche coloro che non hanno debiti e conservano la capacità di spendere
sono restii a farlo per le preoccupazioni sul futuro.
Pesano le incertezze sulla crisi del settore immobiliare e incombe la crisi demografica, pesante eredità
della politica del figlio unico, che assottiglia la forza lavoro e mette un’ipoteca sulla sostenibilità della
crescita. Le misure finanziarie annunciate comprano tempo ma il governo dovrà pensare a soluzioni
diverse per far fronte alle questioni strutturali, pena un lungo periodo di crescita debole o di stagnazione.
La crisi della Cina è soprattutto una crisi di fiducia, l’economia è intrappolata nel trade-off tra ossessione
per la sicurezza nazionale e la libertà di impresa: in assenza di fiducia le risorse finanziarie liberate
dalle banche andranno alle società di proprietà pubblica, aumenteranno la produzione manifatturiera
che i consumi interni non assorbiranno, l’eccesso di produzione sarà canalizzato nelle esportazioni che
porteranno la deflazione fuori dai confini nazionali.
Eppure, anche in questo quadro a tinte fosche ci sono tratti di luce: ora sappiamo con certezza che la
crescita economica è la priorità del governo di Pechino. Inoltre, è in atto un riequilibrio della struttura
dell’economia cinese verso l’automazione e la transizione energetica.
La digitalizzazione si afferma come elemento trainante, secondo gli analisti di KKR potrebbe rafforzare
il Pil di circa il 3,3%, la transizione energetica e la progressiva adozione di fonti energetiche
ecocompatibili potrebbero generare un ulteriore 1,7%. L’economia verde, l’Intelligenza Artificiale,
l’automazione industriale, la digitalizzazione rappresentano circa il 20% dell’economia ma concorrono
per il 55% alla crescita del Pil.
L’investitore deve considerare anche le valutazioni. Negli ultimi anni le performance degli indici azionari
cinesi sono state deludenti, il marcato andamento ribassista è arrivato a livelli tali da limitare l’ampiezza
di ulteriori ribassi.