Siete pronti, siamo pronti, per un secondo round di una agenda “America First”?

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Sembrava politicamente morto dopo quel 6 gennaio del 2021, quando a Washington accadde l’impensabile. Invece Donald Trump si è risollevato, ha fatto dimenticare al partito repubblicano e agli elettori il suo coinvolgimento nei fatti del 6 gennaio, le azioni legali a suo carico per frode, le incriminazioni per 91 capi d’accusa federali e statali.

La narrazione di un’America debole alla quale restituire grandezza ha avuto la meglio sulla realtà, gli Stati Uniti hanno il più alto tasso di crescita tra le economie avanzate (mediamente il 3% per nove trimestri di fila), l’amministrazione Biden ha creato milioni di nuovi posti di lavoro, la disoccupazione è di poco sopra il 4%, i salari reali sono aumentati, le borse sfavillano.

Ma i dati aggregati non raccontano tutta la storia, nascondono il fatto che si tratta di una crescita disuguale: i consumi tengono ma il 20% di tutte le spese sono riferite al 40% della popolazione con i redditi più bassi, mentre più del 40% dei consumi è riferito al 20% più ricco. I milioni di consumatori che spendono buona parte del loro reddito nei beni di prima necessità hanno sperimentato sulla loro pelle gli effetti dell’inflazione: hanno visto come la loro spesa costi circa un terzo di più rispetto a quattro anni fa, il costo del gallone della benzina è aumentato di quasi il doppio. Gli acquisti di beni voluttuari sono diventati un privilegio riservato ai più ricchi, un lusso come la speranza di un futuro migliore.

Quella speranza di cambiamento l’ha promessa Donald Trump. Il disagio avvertito da milioni di americani ha alimentato i suoi consensi: non è stato l’unico fattore a consegnargli la Casa Bianca ma è stato comunque un fattore di rilievo, Trump ha vinto nel numero dei delegati, nel voto popolare, ha avuto il voto delle donne e degli ispanici.

Non è più vero che “le elezioni si vincono al centro” dove si collocavano le classi medie: nel tempo queste si sono impoverite e si sono spostate sugli estremi della curva. L’esortazione al cambiamento, fulcro della narrazione elettorale trumpiana, è stata la risposta più efficace alla voglia di cambiare di milioni di persone spinte in basso nella scala sociale.

Incertezza è la parola chiave, Trump è tornato, questa volta avvantaggiato dall’esperienza del primo mandato, corroborato dal Senato a maggioranza repubblicana e sapremo a breve se avrà dalla sua anche la Camera dei Rappresentanti: la posta in gioco è altissima, comprende i rapporti con l’Europa e la NATO, il coinvolgimento nelle guerre in Ucraina e in Medio Oriente, i rapporti con la Russia di Putin, con la Cina e con Taiwan.

Che il baricentro politico, demografico ed economico del mondo si sia spostato verso il Pacifico è un fatto consolidato. La novità è che lo stesso Occidente si sta allontanando dai suoi valori politici ed economici “fondativi”, le tentazioni autoritarie di Trump e i tratti plutocratici della campagna elettorale ne sono un segnale evidente.

Incertezza nei rapporti con la Cina; Biden non ha modificato la politica tariffaria inaugurata da Trump ma gli aumenti sui dazi promessi in campagna elettorale fanno presagire un inasprimento nei rapporti già tesi tra le due economie più grandi del mondo. Il fenomeno del reshoring e dell’onshoring potrebbe riprendere forza e affievolire la cooperazione internazionale, proprio nell’anno che celebra gli ottant’anni dall’istituzione del Fondo Monetario e della Banca Mondiale, a quarantacinque anni dall’istituzione in Cina della prima Zona Economica Speciale.

I mercati, per loro natura agnostici, non tengono conto delle promesse sulla deportazione degli immigrati illegali, del linguaggio suprematista, delle offese alle élite liberal. Sono altre le promesse che vengono prese al valore facciale: i nuovi tagli alle tasse, la deregolamentazione, lo sguardo benevolo alle fonti energetiche fossili e quello meno benevolo alle iniziative ambientali. Nelle valutazioni c’è inoltre il contributo che con molta probabilità verrà portato dal grande elettore Elon Musk.

Si è così compiutamente formato il “Trump trade” sul quale si sono riversati gli investitori: salgono le borse, si rafforza il dollaro, il mondo delle criptovalute sciabola champagne.

L’incertezza si riflette nei movimenti del mercato obbligazionario dove gli investitori chiedono un premio più alto. Il deficit e il debito federali sono stati il convitato di pietra della campagna elettorale, i due candidati non ne hanno parlato e i tagli delle tasse promessi da Trump non sono certo di sollievo per i livelli record raggiunti.

Il rendimento del Treasury è salito a quota 4,5%, la curva si è irripidita, è aumentato il break-even delle obbligazioni legate all’inflazione. È aumentato il premio a termine, la versione obbligazionaria del premio al rischio, alimentato dall’incertezza, dai timori sulla liquidità del mercato, dalle future emissioni “monstre”, dal cambiamento delle aspettative a breve termine della Federal Reserve.

Dopo il taglio di cinquanta punti base a settembre, e il probabile taglio nella riunione di oggi, non è detto che il ciclo di allentamento prosegua in modo lineare; la Fed, già alle prese con un’economia in buone condizioni, si potrebbe trovare costretta a fare i conti con politiche fiscali potenzialmente inflazionistiche e, forse, con minacce alla sua indipendenza. Le probabilità che ci sia un taglio di venticinque punti base nella riunione di dicembre sono scese a 68% dall’85% di pochi giorni fa.

Il debito a livelli record non è un problema esclusivo degli Stati Uniti, affligge la Cina e i paesi europei, ma gli Stati Uniti godono ancora oggi dell’”esorbitante privilegio” del dollaro, sono l’architrave del sistema finanziario globale e più di altri tenuti a un supplemento di responsabilità. L’amministrazione Biden lascia a Trump una situazione fiscale fragile e in peggioramento, i tagli alle tasse promessi da Trump non farebbero che amplificare questa tendenza. Dopo essere peggiorata poco a poco, la crisi potrebbe arrivare all’improvviso.

Il “Trump trade” è fragile, poche settimane fa ricordavamo come le notizie della politica il più delle volte abbiano effetti di breve termine; nel passato le elezioni presidenziali hanno registrato reazioni immediate ma non hanno mai avuto effetti significativi e duraturi sulle performance dei mercati azionari.

Come sempre, l’investitore deve esercitarsi a distinguere i rumori dai segnali e il segnale viene dalle grandezze fondamentali che descrivono le buone condizioni dell’economia americana. Ricordavamo sopra i tassi di crescita migliori tra le economie avanzate, la fiducia dei consumatori aumenta dal 2022, il mercato del lavoro resta tonico (il dato di ottobre è stato distorto dagli uragani e dallo sciopero dei dipendenti della Boeing).

La reazione dei mercati di queste ore è rumore, se coincide con le analisi di lungo termine, tanto meglio.