UBS WM – Dollaro tra dominio e competitività

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Il dollaro si trova su livelli molto elevati rispetto alle altre valute principali, non
distante dai massimi degli anni ’80 e dell’inizio di questo secolo. La forza
del dollaro statunitense riflette una maggior crescita economica, il suo ruolo
di bene rifugio in un periodo caratterizzato da conflitti militari nonché la
prospettiva di nuovi dazi che potrebbero rallentare i tagli dei tassi d’interesse
della Federal Reserve.

In aggiunta, la spiccata sovraperformance del mercato azionario americano
e il dominio nel know-how dell’intelligenza artificiale hanno attratto ingenti
flussi di capitali oltreoceano. Se consideriamo in particolare il cambio con
l’euro, a questa lunga lista potremmo anche aggiungere la stagnazione
dell’Unione europea e le crescenti incertezze politiche ed economiche di
Francia e Germania.

Ma un dollaro forte, o troppo forte, presenta alcuni effetti collaterali. Per
esempio, alla fine degli anni ’80 e all’inizio degli anni 2000 la forza della valuta
e la globalizzazione hanno danneggiato la base manifatturiera degli Stati
Uniti, rendendola scarsamente competitiva e alimentando il malcontento di
una parte delle popolazione.

In termini reali, il dollaro è attualmente scambiato a un livello del 10-20%
superiore rispetto al 2016-18, durante la prima parte della presidenza Trump
che, anche allora, invocava un cambio più competitivo.

Infatti, durante la campagna elettorale, Donald Trump e il suo vice JD
Vance hanno espresso chiaramente una preferenza per un dollaro più debole
per ridurre il deficit commerciale degli Stati Uniti e ripristinare la potenza
manifatturiera americana, anche con l’ausilio dei dazi.

Ma, in apparente contrasto con l’auspicio di un dollaro meno forte, la
scorsa settimana Trump ha mandato un messaggio che denota una certa
preoccupazione riguardo al ruolo internazionale del dollaro, chiedendo
ai Paesi BRICS di astenersi dal creare una nuova valuta comune o dal
sostenere un’alternativa al dollaro statunitense, altrimenti affronteranno dazi
statunitensi del 100%.

Il gruppo centrale dei BRICS, che include Brasile, Russia, India, Cina e
Sudafrica, si è ampliato quest’anno per includere Egitto, Etiopia, Iran ed
Emirati Arabi Uniti. Il gigante petrolifero Arabia Saudita per ora non ha né
accettato né rifiutato l’invito ufficiale ad aderire all’organizzazione.

Uno dei principali obiettivi di questo club è proprio la «dedollarizzazione»,
vale a dire ridurre la dipendenza dal biglietto verde per quanto riguarda
scambi commerciali e riserve valutarie.

In effetti, negli ultimi 20 anni il commercio tra Paesi emergenti è raddoppiato
rispetto al PIL, mentre gli scambi tra Paesi avanzati sono diminuiti. I Paesi
emergenti utilizzano sempre più spesso le proprie valute nel commercio: se
nel 2001 le valute emergenti erano impiegate solo nel 7% degli scambi
commerciali globali, ora sono arrivate quasi al 25%.

A questo si è aggiunto un fenomeno più recente che vede le banche
centrali di importanti Paesi emergenti, a partire dalla Cina, diversificareparte delle loro riserve valutarie                                                    (tipicamente in dollari) a favore dell’oro.

Ma la dedollarizzazione resta un’impresa dall’esito incerto e a lunghissimo
termine, considerando la diversità di queste economie e l’assenza di politiche
economiche coordinate.

Con tutta probabilità la leadership del dollaro non verrà messa in discussione
per molto tempo, ma la tendenza sottostante indica un indebolimento. I dati
recenti del Fondo monetario internazionale indicano un declino graduale e
continuo della quota del dollaro nelle riserve valutarie delle banche centrali
e dei governi. Se nel 2000 il 72% delle riserve valutarie internazionali era in
dollari, ora la quota del dollaro è scesa al 58%.

Sorprendentemente, il ruolo ridotto del dollaro statunitense negli ultimi due
decenni non è stato compensato da aumenti delle quote delle altre major
come euro o yen bensì da un aumento della quota di dollaro australiano,
dollaro canadese, renminbi cinese, e dollaro di Singapore.
Intanto, lo status del dollaro e il suo utilizzo a livello internazionale, per
esempio come valuta di riferimento per le materie prime, fa sì che moltissimi
dollari circolino oltre confine, rendendo possibili politiche monetarie di più
ampio respiro e limitandone gli effetti negativi, come l’inflazione, sul mercato
domestico.

Il ruolo internazionale del dollaro e la sua ampia circolazione all’estero
consentono quindi di attenuare alcuni squilibri macroeconomici degli Stati
Uniti come bilancia commerciale e deficit del bilancio pubblico.

Tuttavia, al di là delle considerazioni geopolitiche o strategiche, i
fondamentali americani a supporto del dollaro non sono così promettenti,
dato che gli Stati Uniti registrano elevati deficit gemelli. Con questa
espressione si indica la combinazione di un elevato disavanzo del bilancio
pubblico, oltre il 6%, e di un passivo della bilancia commerciale. Questi
dati implicano che gli Stati Uniti si fanno finanziare dall’estero, un elemento
tipicamente negativo per le valute.

A corto raggio il dollaro potrebbe rimanere intorno ai valori attuali, ma ci
aspettiamo che nel prossimo anno il cambio si indebolisca progressivamente.

A nostro avviso, il lungo periodo di forza del dollaro potrebbe quindi volgere
al termine. Inoltre, l’elevato deficit peserà sulla valuta nel lungo termine.

Ci aspettiamo pertanto una fase di minor forza del dollaro rispetto a valute
come l’euro, il franco svizzero, la sterlina, lo yen e il dollaro australiano. In
questo contesto, nella ricerca di diversificazione c’è spazio anche per l’oro.