Powell: messo in ombra da Trump

Olivier De Berranger -

Come da copione, la Fed ha rialzato i tassi per la sesta volta dal mese di dicembre 2015. Non fa tuttavia più notizia questa prima mossa del nuovo governatore centrale che ha innalzato il tasso ufficiale di 25 bp, portandolo all’1,5%/1,75%.

L’attenzione si è riversata invece sulla prima conferenza stampa di Jerome Powell dato che gli investitori erano curiosi di capire se sarebbe stata confermata o meno la svolta hawkish profilatasi durante le sue audizioni davanti al Congresso. Un nulla di fatto visto che l’impostazione è stata improntata alla massima prudenza. Evitando, tra l’altro, di pronunciare nuovamente la parola «surriscaldamento», Powell ha formulato qualche opinione personale facendosi soprattutto il portavoce dei dibattiti del FOMC dove i pareri sono discordi sullo scenario economico e, in particolare, sull’impatto della riforma fiscale. Il Board of Governors, fiducioso nei confronti delle prospettive di crescita, ha rivisto le sue previsioni mediane al rialzo per il 2018 e il 2019 senza modificare però le anticipazioni sull’inflazione. La Fed continua a prevedere 3 aumenti dei tassi quest’anno (anche se ormai 7 membri del FOMC, contro 4 a dicembre, anticipano 4 rialzi), alimentando in questo modo l’impressione di prudenza caratteristica di questo primo appuntamento dell’era Powell.

Oltre alla prudenza, che ha rassicurato i mercati, la Fed non offre molta visibilità. Solo i recenti dati economici, e tra l’altro la crescita stranamente contenuta dei salari a febbraio, sembrano aver frenato alcuni governatori che non hanno scommesso su quattro rialzi dei tassi. Sembra molto forte la correlazione tra il discorso della Fed e i dati economici, che rende estremamente delicato ogni esercizio di previsione relativo all’impostazione che Powell sceglierà per i suoi prossimi interventi. Tuttavia, questo approccio consente alla Fed di non impegnarsi in nessuno scenario e di giocarsi tutte le sue carte.

Questo appuntamento occupa solitamente le prime pagine dei giornali ma Donald Trump, questa volta, ha rubato la scena a Powell. Con la firma giovedì scorso di un memorandum «finalizzato ad aggredire economicamente la Cina», nel quale accusa la patria di Xi Jinping di «concorrenza sleale e di furto della proprietà intellettuale», il Presidente americano ha sollevato un vespaio. Il decreto che allude a misure «punitive» nei confronti delle importazioni cinesi per $60 miliardi costituisce soprattutto, stando al Ministro del Commercio Wilbur Ross, il preludio all’avvio dei negoziati. Benché la lista dei prodotti coinvolti non sia ancora stata resa nota ma sarà pubblicata nei prossimi 15 giorni, i settori tecnologici e delle telecomunicazioni potrebbero essere colpiti in maniera significativa. Per finire, l’amministrazione Trump ha fatto sapere che gli Stati Uniti potrebbero sporgere denuncia presso l’Organizzazione Mondiale del Commercio per presunte violazioni del diritto internazionale del commercio, cui ha risposto l’ambasciatore cinese presso l’OMC segnalando che anche la Cina potrebbe denunciare il progetto di tassazione ipotizzato da D. Trump.

Non è escluso che ancora una volta la montagna partorisca un topolino, come è successo del resto con gli annunci sull’acciaio e sull’alluminio. Se questo rigurgito protezionistico di Trump è collegato alla scadenza delle elezioni di metà mandato, resta il fatto che il Presidente americano sta giocando un gioco pericoloso nei confronti della Cina.

E la paura di una «guerra commerciale» di vasta portata continuerà probabilmente a preoccupare i mercati.


Olivier De Berranger – Chief Investment Officer – La Financière de l’Echiquier