Cina vs. USA: si incroceranno le spade?

Witold Bahrke -

Occhio per occhio, dente per dente. Chiaramente questo tipo di atteggiamento da parte della Cina ha colto i mercati di sorpresa nelle scorse settimane.

Questo perché la bilancia commerciale pende decisamente a favore di Pechino, con le esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti che sono quattro volte superiori rispetto alle importazioni, cosa che rende quindi la Cina più vulnerabile rispetto alla sua controparte in questo gioco di parata e risposta. Crediamo comunque che la soluzione più plausibile sia l’inizio di una lunga fase di negoziazione tra le parti, non lo scoppio di una vera e propria guerra commerciale.

Fino ad ora, infatti, molto poco di quanto annunciato è stato messo in pratica. Non sono arrivate particolari nuove indicazioni dalle parole pronunciate dal presidente Xi nel suo tanto atteso discorso del 10 aprile scorso, ma i toni più concilianti usati da Pechino potrebbero essere un’indicazione che questo scontro verbale è destinato a rimanere tale. Nessuna guerra commerciale all’orizzonte, dunque.

Ciò detto, è improbabile che le incertezze svaniscano prima delle elezioni di medio termine statunitensi. Nel lungo periodo, invece, c’è da sottolineare come il punto focale non sia la Rust Belt, ma la protezione della proprietà intellettuale. Questo problema è più strutturale e legato a doppio filo alle ambizioni cinesi di diventare i nuovi leader mondiali della tecnologia, ad esempio nel campo dell’intelligenza artificiale. Un fatto: i titoli tecnologici hanno trainato l’azionario durante l’ultima fase rialzista del mercato e molti credono che chi sarà in grado di imporsi in questa corsa tech sarà anche colui che conquisterà la leadership economica mondiale. Alla luce di ciò, il trasferimento di brevetti dagli Stati Uniti alla Cina assume un’importanza primaria. Si tratta di un braccio di ferro per determinare di chi sarà lo scettro di prima potenza economica da qui a dieci anni.

Quali saranno gli effetti dal punto di vista macroeconomico?

In qualunque modo la si veda, comunque, possiamo dire che i tempi di veloce espansione commerciale sono finiti e che, in generale, la maggiore aggressività usata nell’affrontare le questioni commerciali non svanirà. I Paesi che hanno vinto l’ultima sfida della globalizzazione dovranno probabilmente lasciare il posto di guida nel futuro. E’ importante sottolineare come l’intensità degli scambi globali, misurata come valore degli scambi in rapporto al pil, abbia già raggiunto il suo picco una manciata di anni fa. Misure protezionistiche stanno prendendo piede da tempo, da molto prima del recente intensificarsi della tensione. Il progresso tecnologico, in particolare la robotica, sta rendendo l’internalizzazione della produzione più conveniente. Quindi un ambiente meno trade-friendly non è di per sé una novità.

L’impatto sui mercati: segnale o solo rumore?

Per quanto importante, l’incertezza che si respira seguendo lo scontro verbale tra Usa e Cina non è la causa della deludente performance degli asset rischiosi, ma certo non aiuta. Il motivo principale della generalizzata avversione al rischio è legato alla combinazione di un mercato perfettamente prezzato e una politica monetaria progressivamente meno accomodante. La prima banca centrale al mondo sta alzando gradualmente il costo del denaro e finanziarsi sul mercato monetario sta diventando più oneroso con il diminuire della liquidità circolante. Questo è il vero problema. La recente espansione dello spread Libor-OIS (Overnight Index Swap) indica da 1 a 2 ulteriori rialzi da parte della Fed. I venti contrari innescati dalla politica monetaria stanno montando, e il mercato inizia a rendersene conto. Tutto considerato, se davvero le minacce delle prime due economie mondiali dovessero tradursi in azione non sarebbe che il colpo finale inferto ad un toro già ferito.


Witold Bahrke – senior macro strategist – Nordea AM