Navigando tra un tweet e l’altro

Enrico Ascari -

La politica, in particolare quella kamikaze del “no deal world”, sostituisce la logica puramente economica degli Ottimati nel determinare le grandi scelte strategiche. Il “nuovo ordine” destabilizza gli usuali riti dei mercati finanziari e mette sulla graticola le banche centrali. Ne vedremo delle belle.

Molto rumore per nulla?

La recente frenesia dei mercati, ormai improbabile barometro degli umori planetari, ha coinvolto soprattutto i tassi d’interesse e ha una causa facilmente identificabile: il tweet di Trump di inizio agosto con il quale @Potus annunciava l’ennesimo giro di valzer tariffario sui beni di importazione cinese. L’obiettivo era quello di spaventare la Cina; ha piuttosto gelato i mercati, dando il via a un nuovo episodio di avvitamento delle aspettative, con tassi in picchiata, caduta delle Borse (per ora marginale), corsa ai cosiddetti “safe asset” (bund tedeschi, oro, yen e franco svizzero), peggioramento degli indicatori di fiducia e aumento delle probabilita? di una imminente recessione (vedi nel grafico gli esiti di un sondaggio in merito tra gli economisti).

L’inversione della curva dei tassi d’interesse, che si narra abbia anticipato le ultime cinque recessioni dell’economia statunitense, e? stata il catalizzatore del furore degli investitori.

Per ora i danni per i risparmiatori sono stati irrilevanti: i capital gain sulle obbligazioni hanno piu? che compensato le modeste perdite dei mercati azionari, le cui imprevedibili oscillazioni sono state assorbite con facilita?.

Tassi in ghiaccio e bolla dei prezzi obbligazionari

Il calo dei tassi d’interesse e? stato comunque spettacolare. In un mese i treasury con scadenza decennale sono passati da un rendimento del 2% all’1,5%; per assicurarsi il “privilegio” di detenere bund tedeschi gli investitori sono disposti a pagare lo 0,7% annuo; l’ultima emissione a 30 anni di Berlino ha cedola zero. Persino il BTP decennale italiano, malgrado la crisi di Governo, ha visto il rendimento precipitare sotto l’1%. I tassi reali, al netto quindi dell’inflazione, sono negativi quasi ovunque su ogni orizzonte temporale. Cio? ha portato ossigeno, con rendimenti anche a doppia cifra, ai portafogli degli investitori posizionati su obbligazioni caratterizzate da elevata duration finanziaria (scadenze lontane nel tempo).

Si tratta di performance spettacolari, in alcuni casi analoghe a quelle ottenibili dai titoli azionari piu? speculativi. Tant’e? che c’e? chi parla di “bolla” sui titoli di debito, ipotesi giustificata da considerazioni sul valore fondamentale degli stessi e dalla conseguente carenza di motivazioni per acquistarli. D’altra parte e? ovvia la constatazione che per acquistare un’obbligazione che “garantisce” a scadenza un rendimento negativo le motivazioni non possono che essere binarie: o l’ipotesi “speculativa”, tipica dello schema di Ponzi o della teoria del “greater fool”, che giustifica l’acquisto sulla scommessa che si trovera? sempre e comunque un compratore disposto a pagare un prezzo piu? alto del nostro (e quindi con un rendimento del titolo a scadenza ancora piu? negativo); ovvero l’acquisto per motivi di natura prudenziale e/o assicurativa: siamo disposti a subire un danno certo ma relativamente limitato per evitare perdite maggiori su attivita? (apparentemente) piu? rischiose o per non tenere soldi sotto il materasso.

Invero, essendo i tassi d’interesse uno degli strumenti chiave della politica monetaria e di gestione delle aspettative e gli strumenti di mercato monetario la materia prima su cui operano le banche centrali per modificare i comportamenti del sistema bancario, parlare di “bolla” delle obbligazioni e? piu? che ragionevole ma certamente semplicistico.

Non e? un caso che i temi della deflazione, della stagnazione secolare, della “giapponesizzazione” dell’Occidente, della mancanza di munizioni delle Banche Centrali per fronteggiare l’incombente prossima recessione siano tornati al centro del dibattito accademico e, soprattutto, sotto i riflettori dei media che campano sulle news finanziarie. Per i tanti (spesso interessati) messaggeri di sventura gli attuali livelli dei tassi di interesse nominali e reali sarebbero coerenti con l’evoluzione delle economie e soprattutto del quadro demografico dei paesi avanzati e il rischio di una imminente “glaciazione” (economica) che farebbe da metaforico contraltare al riscaldamento globale del pianeta.

Comunque sia, ormai il valore nominale dei bond con rendimento negativo ha toccato i 17 mila miliardi di dollari, il 25% dello stock globale delle emissioni, inclusi i titoli corporate High Yield.

La nuova normalita? del “no deal world”.

La lettura degli eventi estivi, pur considerando quasi grotteschi alcuni eccessi sui tassi d’interesse, pone diversi seri quesiti. Il primo e?: quanto a lungo gli investitori potranno sottovalutare i rischi che derivano da un continuo rilancio al rialzo del livello di scontro sulle questioni commerciali e i rapporti di potere a livello internazionale?

Siamo di fronte a un quadro che ha aspetti paradossali. L’economia globale continua a crescere, sia pure a ritmi piu? lenti che nel 2018. La spinta arriva dai consumi delle famiglie che vedono finalmente crescere i redditi, con l’aiuto di prezzi dell’energia contenuti e l’occupazione ai massimi dell’ultimo decennio. Inoltre, il credito e? disponibile e meno caro che mai. Anche le imprese, in particolare le grandi corporation, hanno ampia disponibilita? di cash flow e capacita? di indebitamento inutilizzata. Infine, cio? che piu? conta, sono scarsi e con portata limitata i segnali di eccesso di leva o esuberanza speculativa che tipicamente precedono una seria caduta dell’economia.

Malgrado cio?, le aspettative degli agenti economici sono condizionate da un’ansia crescente; la mancanza di fiducia limita gli investimenti, affloscia gli “animal spirits”: il ciclo economico globale continua a indebolirsi soprattutto nell’ambito del settore manifatturiero. Sappiamo che non e? un caso, in quanto le aspettative negative di imprenditori e “money managers” sono alimentate dal nuovo stile politico dominante, quello delle contrapposizioni a muso duro e dei compromessi zero. E? il “no deal world” delle guerre commerciali e valutarie, della hard brexit, dei patti violati, dove impazza il machismo dei nuovi populisti. Che a volte si capottano (vedi il caso italiano).

Politica Kamikaze

La politica, spesso la politica kamikaze, sostituisce la logica puramente economica degli Ottimati nel determinare le grandi scelte strategiche. Non e? forse un caso che gli indicatori che misurano la fiducia siano ancora prevalentemente positivi quando le indagini di mercato riguardano i consumatori o le famiglie e inequivocabilmente negativi quando gli intervistati sono gli imprenditori o operatori della finanza: la contrapposizione tra “popolo” ed e?lite si misura anche con le metriche dell’umore.

Il ricatto dei mercati

La grande finanza, che da sempre condiziona le scelte politiche, ha interessi solo parzialmente convergenti a quelli dell’amministrazione USA: vuole tassi piu? bassi, Borse euforiche, politiche economiche sempre piu? “espansive”, ma deve salvaguardare la globalizzazione, che e? questione vitale. Trump, che prima di tutto punta a essere rieletto e ha bisogno di un’economia forte nel 2020, vuole, da una parte, tenere il punto sugli interessi nazionali e sul protezionismo economico (“America first”), ma nello stesso tempo non puo? permettersi che i mercati anticipino le potenziali ricadute negative di una escalation tariffaria con pesanti cali di Borsa che peggiorerebbero ulteriormente le aspettative. Da qui il continuo “stop and go” dei messaggi mediatici sapientemente dosati per manipolare la Federal Reserve, i cinesi e i mercati. La partita giocata dalla Casa Bianca ha ormai il difetto di essere abbastanza scoperta e quindi anticipabile dai padroni della finanza.

Gli stessi mercati continuano a dare segnali divergenti: gli spread sui crediti ai minimi e le Borse vicine ai massimi rassicurano; il meteo dei tassi segnala, al contrario, tempo in deciso peggioramento. La verita?, probabilmente, e? che mai come in questa epoca di ritorno alla grande della politica i segnali trasmessi dai mercati sono poco affidabili. Cio? nonostante non possono essere sottovalutati: attraverso il circolo vizioso delle aspettative possono “creare” una recessione “fake” quasi dal nulla, costringendo le banche centrali a realizzare politiche sempre piu? estreme per cercare di evitarla. Un grande raffreddamento globale (una grande stagnazione) non puo? quindi essere escluso a priori, ne? va sottovalutato. Un cambio di regime economico, di stampo nazionalista e protezionista, guidato dall’Amministrazione statunitense, avrebbe ricadute negative ben piu? ampie degli effetti diretti dell’aumento delle tariffe: dalla distruzione delle supply chains, al calo degli investimenti cross-border, al prosciugarsi dei flussi di risparmio a livello internazionale. Gli Stati Uniti potrebbero essere i primi a pagare un prezzo altissimo se il dollaro non fosse piu? il principale polo di attrazione dei grandi capitali. Inoltre, le tariffe sono inflazionistiche. Considerato che siamo in presenza di 17 mila miliardi di dollari di obbligazioni con tassi negativi, lo scenario piu? distruttivo per il risparmio, i mercati finanziari e il benessere globale, sarebbe quello di un aumento imprevisto dell’inflazione (oggi tanto desiderata).

Il verosimile declino delle banche centrali

Uno degli obiettivi chiave del populismo e? quello di abbattere i tradizionali santuari dei mercati globalizzati, peraltro illudendosi di non pagare pegno.
Ne consegue la disintermediazione delle istituzioni che hanno per decenni condizionato, con la loro presunta indipendenza, le scelte politiche, a partire dalle banche centrali e in particolare dalla Federal Reserve, oggetto di pressioni continue da parte della Casa Bianca.

All’annuale incontro dei banchieri centrali a Jackson Hole, Jeremy Powell – obiettivo di un tweet presidenziale di scherno “tempestivamente” lanciato poco prima del suo intervento – ha puntualizzato che la Fed non e? in grado di anticipare gli effetti derivanti dalla gestione delle politiche commerciali. Il Governatore della Federal Reserve di Dallas, Kapland, ha affermato che “… dobbiamo capire che ci possiamo svegliare ogni giorno della settimana con una sorpresa sul fronte delle politiche commerciali perfino con paesi con cui abbiamo accordi, e non si tratta solo della Cina”. Si tratta di affermazioni di gravita? inaudita, che riflettono lo sconcerto nell’ambito della stessa Amministrazione USA.

Inoltre, si e? chiarito che le banche centrali non potranno piu? tornare alle politiche tradizionali adottate prima della grande crisi finanziaria e che rimane aperto il problema dell’assenza di munizioni per affrontare la prossima recessione; infine “l’esorbitante privilegio” di cui si e? appropriato il dollaro assumendosi la funzione di moneta di riserva globale5 potrebbe essere messo in discussione, a maggior ragione considerando l’erraticita? delle politiche americane in corso.

Sono di fatto dichiarazioni di impotenza che aprono la strada a scenari fino a poco tempo fa inimmaginabili e a scontri sempre piu? duri anche all’interno degli ambienti che contano. Nei giorni scorsi William Dudley, esponente di primo piano dell’establishment economico democratico, che e? stato il numero tre della Fed fino all’anno scorso, ha dichiarato che la “Federal Reserve deve smettere di rimediare ai problemi che la guerra commerciale di Trump crea all’economia globale e deve al contrario porsi l’obiettivo di impedire che Trump, con un secondo mandato, faccia altri danni”6. Per farlo basterebbe non tagliare ulteriormente i tassi d’interesse.

La voce di Dudley che evoca quasi un’azione eversiva, rimane isolata. Molto meno lo sono quelle di segno opposto, sia tra l’accademia, sia tra i policy makers.

Considerando che gli strumenti non convenzionali da tempo utilizzati dai banchieri centrali (tassi bassi, Quantitative Easing, condizionamento verbale delle aspettative) hanno un effetto decrescente, quando non controproducente, sulle variabili reali (la crescita dei redditi), si parla ormai senza pudore della necessita? di stimolare la crescita economica con soluzioni dirette di tipo inflazionistico, con un ritorno al “deficit spending”, con l’ibridazione di politiche monetarie e fiscali (null’altro del finanziamento monetario della spesa pubblica in stile anni ’70), con la creazione di “people money”7 in sostituzione del QE (si tratta di stampare moneta e trasferirla direttamente alle famiglie con un assegno mensile) e con tante altre ipotesi piu? o meno strampalate di segno analogo. Il tutto ideologicamente sostenuto da una arcana teoria economica tornata di moda: la “Modern Monetary Theory” (MMT).

Qualcuno e? perfino arrivato a ipotizzare, evocando di fatto il suicidio dell’economia di mercato, che le banche centrali comprino direttamente azioni. La proposta piu? sfacciata e? quella che arriva da Blackrock, il maggiore gestore di patrimoni a livello globale, che annovera tra i suoi consulenti una nutrita batteria di ex banchieri centrali (cosa non si farebbe per soldi…): che le Banche Centrali, sull’esempio della Bank of Japan, comprino direttamente azioni (si chiama “intervento diretto”) riducendo per le imprese anche il costo del capitale azionario (l’equity risk premium) oltre a quello del debito, gia? ridotto ai minimi termini. Poi parlano di conflitti di interesse e di investimenti “socialmente responsabili”.
Abbiamo un grande futuro che ci attende: certamente non mancheranno le sorprese.


Enrico Ascari – membro del Comitato Investimenti – Assiteca SIM