Banche Centrali: conti in rosso

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Durante le ultime crisi, le banche centrali hanno assolto alla loro funzione di risposta in modo alquanto lineare: più grave era la situazione di difficoltà, maggiore l’ondata di liquidità messa in campo per farvi fronte. La Fed, in risposta alla pandemia di coronavirus, ha gonfiato il suo bilancio fino quasi 9.000 miliardi di dollari US, mentre il bilancio dell’Eurosistema ha toccato nuovi record storici sfiorando 8.800 miliardi di euro nell’estate del 2022. L’enorme ondata di liquidità degli ultimi decenni ha però avuto le sue conseguenze. Sostenere famiglie, imprese e Stati con denaro a basso costo comporta dei rischi e lo si vede anche nei bilanci delle banche centrali, dove oggi è in atto un effetto collaterale tanto indesiderato quanto inevitabile.

Come sappiamo, però, negli ultimi anni l’inflazione è salita a livelli storicamente elevati costringendo la BCE a invertire la rotta sui tassi d’interesse in circostanze eccezionali. Nel giro di 15 mesi il tasso di riferimento della BCE ha compiuto un balzo di 4,5 punti percentuali e il problema del divario dei tassi d’interesse sta incidendo profondamente sui conti economici delle banche centrali dell’Eurozona. Nell’attivo dello stato patrimoniale figurano in particolare i titoli iscritti al costo ammortizzato e quindi riportati nei libri contabili con i bassi rendimenti che presentano al momento dell’acquisto. Nel passivo sono rilevati per lo più i depositi bancari plurimiliardari, remunerati ultimamente con generosi interessi al 4,0 %. Ne risulta un margine d’interesse negativo che sta mettendo a dura prova la BCE e le banche centrali nazionali dell’Eurosistema. Da questo punto di vista sono in buona – anzi, in cattiva – compagnia.

L’obiettivo primario della politica monetaria è la stabilità dei prezzi. Per le banche centrali utili e perdite non sono che effetti collaterali, anche se per molti governi gli utili delle autorità monetarie sono una fonte di reddito assai gradita. Ora però i rubinetti si sono chiusi, perché l’inversione di tendenza nei tassi d’interesse ha i suoi effetti anche sui bilanci delle banche centrali.

E anche se i criteri contabili adottati da BCE e Fed fanno sì che le perdite (di prezzo) non vengano contabilizzate direttamente, bensì differite a un momento futuro e spalmate su periodi più lunghi. La situazione resta comunque complessa. Ad esempio, la maggior parte delle 12 Federal Reserve Banks statunitensi che compongono il Federal Reserve System hanno sospeso i loro trasferimenti settimanali di utili al ministero delle finanze USA nel settembre del 2022 e da allora registrano perdite a nuovo. Per gli ultimi mesi del 2022 l’ammontare era contenuto: solo 16,6 miliardi di dollari. Ma nel 2023 le perdite riportate a nuovo sono lievitate a 116,7 miliardi di USD.

La Fed, alla fine del 2023, aveva già accumulato 133 miliardi di dollari US di perdite portate a nuovo e la Deutsche Bundesbank inizierà verosimilmente a riportarne nel 2024, una volta esauriti tutti gli accantonamenti e le riserve.

Per le banche centrali è un problema? In realtà le banche centrali non rischieranno mai di diventare “illiquide”: a differenza delle normali imprese, dispongono del vantaggio del “monopolio di emissione” e possono ricostituire continuamente il proprio patrimonio netto dopo le perdite in un’ottica di lungo termine.

In più, la situazione finanziaria delle banche centrali è meno “precaria” di quanto potrebbero suggerire le eventuali perdite portate a nuovo. Molte autorità monetarie dispongono di ingenti “riserve latenti”, in linea teorica, si può anche affermare che il monopolio di emissione di cui godono le banche centrali rappresenta un’attività immateriale che non figura affatto nei loro prospetti contabili. Nel complesso, quindi, la qualità del bilancio di molte banche centrali è più elevata di quanto suggerisca un rapido sguardo al patrimonio netto o a eventuali riporti di perdite.

Dato che il monopolio di emissione tutela le banche centrali dall’illiquidità, si potrebbe pensare che i loro utili e perdite siano del tutto irrilevanti. Ma in realtà non è così semplice. Vero è che la loro capacità di sostenere le perdite è teoricamente infinita, ma le perdite non dovrebbero avere carattere permanente: perché in tal caso la banca centrale sarebbe costretta a stampare moneta per poter coprire le spese correnti e perderebbe così il controllo sulla politica monetaria, con conseguente rischio di inflazione.

Al momento, però, non c’è motivo di ipotizzare una prospettiva del genere. In linea di massima vi sono molti segnali che indicano che le banche centrali, in un’ottica di medio termine, torneranno alla redditività e saranno in grado di ricostituire il patrimonio netto . Persiste però il “rischio” che i bilanci permangano a livelli elevati a lungo. La Fed ha già dichiarato di prevedere un totale di bilancio più consistente rispetto ai dati storici. Persisteranno quindi anche i rischi legati alle variazioni dei tassi d’interesse. Il membro del consiglio della Fed Christopher Waller ha osservato che in futuro sarebbe opportuno tornare a detenere più titoli di Stato USA a breve termine, che offrono un rendimento più vicino al livello del tasso di riferimento. Di recente, infatti, i “Treasury Bill” – buoni del Tesoro statunitensi con scadenza fino a un anno – rappresentavano meno del 5% di tutti i titoli di Stato detenuti dalla Fed. L’opportunità o meno di ridurre la durata dei titoli iscritti all’attivo va però valutata con attenzione.

Con l’inversione di tendenza nei tassi d’interesse, diverse banche centrali hanno subito perdite miliardarie negli ultimi anni e probabilmente ne affronteranno altre. A ogni modo, la reputazione degli istituti monetari dovrebbe rimanere intatta: le perdite temporanee non limitano il loro raggio d’azione, la loro solvibilità è per definizione infinita, persistono massicce riserve latenti e infine, in un orizzonte di medio termine, gli utili dovrebbero tornare. Dopotutto, i costi di emissione della cartamoneta in circolazione sono pressoché nulli, mentre al denaro contante in circolazione si contrappongono nell’attivo titoli fruttiferi. E c’è un altro punto che gioca a favore delle banche centrali: in questo momento si stanno concentrando sul loro obiettivo d’inflazione, accettando le perdite autoinflitte come un rischio calcolato. Viste sotto questa luce, le perdite potrebbero persino giovare alla reputazione delle autorità monetarie anziché minarla: in fondo, hanno solo tenuto fede al loro mandato – anche a costo di rimetterci di tasca propria.