Mercati emergenti: le prospettive nel 2025 dopo la vittoria di Trump
Con Wall Street ai massimi, ma con valutazioni molto costose, e un’Europa che, al momento, non ha eccezionali prospettive di crescita, investire nei paesi emergenti è indubbiamente un interessante complemento di investimento ai paesi sviluppati, in un portafoglio ben diversificato. Avere all’interno del portafoglio una asset class che non è perfettamente correlata all’andamento dei principali indici azionari mondiali, europei e americani, ha senso anche dal punto di vista fondamentale, se si considera che, a oggi, quasi la metà del Pil mondiale e più della metà della crescita provengono proprio da questi paesi, in particolare dall’Asia.
Nonostante ci siano spinte contro la globalizzazione, in particolar modo dal Nord America, che hanno impattato in modo negativo sul rendimento complessivo dei Paesi emergenti, non bisogna dimenticare che gran parte della crescita dei paesi emergenti proviene dalla domanda interna, che è trainata dagli investimenti e dalla crescita della popolazione. Sono driver di lungo periodo che non verranno intaccati nei prossimi anni. È aumentata negli ultimi dieci anni la rilevanza dei paesi emergenti nel Pil mondiale, al di là delle performance dei mercati azionari. Dal punto di vista macroeconomico, prevediamo che il loro peso continuerà a crescere almeno fino ai prossimi dieci anni.
Per quanto riguarda, invece, l’evoluzione dei prezzi in Borsa bisogna considerare numerose variabili. La prima, è la varietà di Paesi all’interno dell’asset class emergente. L’India, ad esempio, è un colosso che sta crescendo bene dal punto di vista dei fondamentali e anche dei mercati azionari. E, poi, la Cina, che a oggi è la seconda economia al mondo, con un con un Pil pari a 19 mila miliardi di dollari, un’economia gigantesca, se si considera che il Pil degli Stati Uniti è circa un terzo più grande. Ci sono, però, anche realtà più piccole, seppur in forte crescita, come Brasile, Indonesia, e alcuni paesi africani, tra cui il Sudafrica e la Nigeria.
Le ragioni della sottoperformance delle Borse dei mercati emergenti, che hanno perso circa il 14% negli ultimi tre anni, vanno ricercate, per assurdo, nella sovraperformance dei paesi sviluppati: il settore che ha performato particolarmente bene è stato quello tecnologico. Se si dovesse escludere questa componente, la differenza di performance tra paesi emergenti e sviluppati ci sarebbe, ma non sarebbe così evidente soprattutto se dall’analisi si escludesse la Cina. Se guardiamo infatti i singoli casi, la Borsa indiana ha guadagnato negli ultimi tre anni quasi il 50% in euro. L’indice invece della Borsa cinese domestico, il CSI 300, ha perso nello stesso lasso di tempo circa il 20%.
Nell’ultimo periodo, si è visto un moto di ripresa dell’economia cinese dovuto soprattutto alle politiche di stimolo annunciate dal governo. È difficile trovare a oggi investitori che abbiano una view positiva sul Dragone, ma le politiche introdotte da Xi Jinping e volte a modificare la struttura di crescita del Paese sembrano avere avuto un impatto positivo sul sentiment generale.
Fino a qualche anno fa il settore immobiliare era uno dei più rilevanti e rappresentava circa un quinto del Pil della Cina. Di fronte alla bassa redditività del settore real estate rispetto al resto dell’economia si è iniziato a voler arginare la speculazione. Questo ha fatto sì che il settore si contraesse e trascinasse al ribasso l’economia del Paese. Quelli a cui stiamo assistendo ora sono i primi segnali di stabilizzazione del settore immobiliare, frutto di manovre caute, specifiche per i singoli settori, i cui effetti si stanno vedendo nel tempo. Analizzando l’andamento delle vendite immobiliari nel mese di ottobre si vede, per la prima volta dopo molti mesi, una certa stabilizzazione con una ripresa della crescita principalmente nelle città più grandi, nonostante un calo costante dei prezzi.
Sul fronte dei consumi, negli ultimi quattro anni, c’è da notare che i risparmi cinesi sono cresciuti di circa 9.000 miliardi di dollari. E questo perché i cinesi stanno consumando meno, a causa di una certa sfiducia nella struttura economica del paese. Xi Jinping si sta muovendo proprio per cercare di ricostruire la fiducia di consumatori, imprese e investitori in modo tale da far ripartire l’economia e la crescita.
Un esempio positivo, in tal senso, sono i risultati emersi dopo il “Singles’ Day”, analogo al nostro Black Friday e nato come alternativa cinese a San Valentino: Alibaba ed altre società e-commerce hanno riportato i numeri delle vendite e sembrerebbe che i consumatori si siano precipitati ad acquistare almeno in termini di volumi. Possiamo dire che stiamo assistendo a qualche germoglio di ripesa economica, anche se chiaramente molto dipenderà da quello che farà il governo nei prossimi mesi, anche in risposta alle possibili politiche tariffarie messe in campo da Trump.
Trump e dollaro forte, quali prospettive
Storicamente si è verificata questa correlazione negativa tra andamento degli indici emergenti e andamento del dollaro. Chiaramente le politiche di Trump, almeno quelle dichiarate, sono molto inflazionistiche, e questo sta creando un po’ di timore tra gli operatori. La ragione è che se ci dovesse essere una ripresa dell’inflazione e se Trump dovesse attuare tutte le politiche che ha annunciato, probabilmente la Fed non sarebbe più nelle condizioni di tagliare i tassi di interesse.
Per questo il dollaro si sta prezzando e sta creando un circolo negativo che sta penalizzando questa asset class. Detto questo, però, bisogna anche considerare che, probabilmente, le reali intenzioni di Trump siano quelle di avviare delle trattative coi singoli paesi destinatari di possibili tariffe particolarmente penalizzanti.
La stima è che le tariffe sul valore complessivo delle importazioni negli Stati Uniti possano raggiungere il 25%, una percentuale che non si vedeva dalla metà degli anni ‘40. Se questo dovesse verificarsi, ci sarebbero ripercussioni non solo per i paesi emergenti asiatici, ma anche per i paesi europei.
Il motivo per cui riteniamo che quella di Trump sia una strategia per sedersi al tavolo delle contrattazioni è che, nella realtà, la sua politica così rigida non sarebbe conveniente neanche per l’economia americana: dovrebbe, per esempio, deportare milioni di lavoratori illegali dal Paese e questo chiaramente farebbe aggravare ulteriormente il Pil americano, visto che molte fabbriche sarebbero costrette a fermare la produzione. Rispetto al primo governo Trump, inoltre, la Cina e gli altri paesi emergenti sono completamente integrati nella scena internazionale. Quindi, è impossibile far sì che le merci dei paesi emergenti non arrivino negli Stati Uniti. Queste tariffe particolarmente penalizzanti rischierebbero di bloccare molte industrie americane perché impossibilitate a ricevere i materiali o i prodotti finiti necessari a produrre i loro beni.