Commento GAM: Dazi & negoziati
Trump interviene nuovamente a gamba tesa via social, minacciando dazi del 50% su tutte le importazioni dalla UE a partire dal 1° giugno, esercitando massima pressione per sbloccare le trattative ferme. Dopo una telefonata “cordiale” con Ursula von der Leyen, annuncia su Truth di aver accolto la sua richiesta di proroga della scadenza al 9 luglio. Anche la presidente della Commissione Europea conferma l’impegno comune a “portare avanti i colloqui in modo rapido e deciso”.
I PMI della zona euro di maggio hanno deluso le attese, con un rallentamento soprattutto nei servizi, segnalando una crescita che potrebbe rivelarsi debole. Negli Stati Uniti, invece, i dati hanno mostrato un rimbalzo dopo le tensioni sui dazi: sia il manifatturiero che i servizi si sono attestati a 52,3, sopra le previsioni. Tuttavia, i dettagli smorzano l’ottimismo. L’occupazione è in calo e si registrano forti aumenti sia nei prezzi dalla produzione sia nei prezzi finali, segnale evidente che le tariffe iniziano ad avere un impatto.
Approvato alla Camera il pacchetto fiscale di Trump, che estende i tagli alle tasse e alza il tetto del debito. Il testo include misure controverse su spesa sociale, energia e tassazione universitaria, e ora passa a un Senato più scettico.
I movimenti dei Treasury non trovano corrispondenza in quelli del dollaro: prosegue il decoupling in un contesto di deficit crescente e domanda estera in calo.
Ad aprile l’inflazione britannica è balzata al 3,5% (dal 2,6% di marzo), spinta da aumenti di energia, acqua e altre tariffe. Il dato ha superato sia le attese della BoE (3,4%) sia quelle degli analisti (3,3%). Particolarmente forte la componente servizi (5,4%, atteso 5%) e il dato core (3,8%). La Bank of England, che ha tagliato i tassi al 4,25%, resta prudente: i mercati ora prezzano solo un ulteriore taglio entro fine anno, contro i due attesi prima del dato. Il balzo dell’inflazione coincide con il cosiddetto “awful April”, definizione comparsa sulla stampa britannica per indicare il simultaneo aumento di prezzi, tasse locali, imposte sui salari pagate dai datori di lavoro e salari minimi. Un contesto che complica i piani di Keir Starmer e rafforza la linea cauta della BoE, alle prese con una crescita salariale ancora sostenuta.
I dati PMI di maggio segnalano un indebolimento dell’economia dell’area euro, con l’indice composito di S&P Global sceso sotto quota 50 (49,5 da 50,4 ad aprile), soglia che separa espansione da contrazione. Il dato ha deluso le attese, che indicavano un lieve miglioramento (consensus a 50,6). La frenata è guidata dal settore dei servizi, che ha registrato la performance peggiore da 16 mesi. In Germania, il PMI composito è calato a 48,6 da 50,1, penalizzato proprio dal netto peggioramento nei servizi. L’indebolimento della domanda interna pesa sul comparto, anche se la manifattura mostra segnali di tenuta, grazie a nuovi ordini dall’estero che potrebbero riflettere un tentativo di anticipare gli effetti dei dazi statunitensi. In Francia, il PMI composito resta sotto quota 50 per il nono mese consecutivo, segnalando una fase di stagnazione. La manifattura continua a soffrire e anche i servizi non mostrano segnali di ripresa. In contrasto, l’indice Ifo tedesco ha sorpreso leggermente al rialzo, salendo a 87,5 da 86,9, sostenuto da aspettative più ottimistiche in tutti i settori, in particolare nella manifattura. Tuttavia, la componente sulla situazione attuale è peggiorata, e il clima resta sotto la media storica. Si prevede una crescita piatta nei prossimi trimestri. La perdita di slancio nei servizi – particolarmente rilevante in Germania e Francia – alimenta attese più accomodanti da parte della BCE, soprattutto in vista del meeting di giugno. La combinazione tra crescita fragile e dinamiche salariali ancora forti nei servizi dovrebbe giustificare un ulteriore taglio dei tassi, ma il percorso successivo resta incerto e legato all’evoluzione dei prezzi e alle politiche commerciali USA.
La Camera dei Rappresentanti ha approvato con un margine risicato (215-214) il nuovo pacchetto fiscale voluto da Donald Trump, che ora passa al Senato dove diversi repubblicani chiedono modifiche sostanziali. Il provvedimento estende i tagli alle tasse varati durante il primo mandato di Trump, in scadenza a fine anno, e introduce nuove agevolazioni, tra cui l’innalzamento del tetto per la deduzione delle imposte statali e locali (SALT) fino a 40.000 dollari e l’esenzione temporanea dalle tasse su mance e straordinari. Per evitare un possibile default nei prossimi mesi, il piano include anche un aumento del tetto del debito federale di 4.000 miliardi di dollari. La manovra contiene però anche misure controverse, come tagli alla spesa sociale, in particolare Medicaid e l’eliminazione di buona parte dei crediti d’imposta per l’energia pulita introdotti sotto l’amministrazione Biden. Altre novità rilevanti riguardano l’aumento consistente della tassazione sui grandi patrimoni delle università private e sui trasferimenti di denaro all’estero da parte degli immigrati. Sul fronte delle spese, il piano stanzia 150 miliardi di dollari aggiuntivi per la difesa e 175 miliardi per il rafforzamento dei controlli sull’immigrazione, due priorità per l’Amministrazione. Il dibattito resta acceso: i Democratici denunciano un provvedimento regressivo che favorisce i più ricchi a scapito dei più vulnerabili, mentre Trump lo considera un successo politico.
Target, uno dei principali attori della grande distribuzione americana, ha rivisto al ribasso le stime sui ricavi per l’anno in corso, dopo un trimestre deludente. Le vendite comparabili sono calate del 3,8% e il flusso dei clienti nei negozi continua a diminuire. Il titolo conferma una tendenza negativa che si protrae da mesi. Il CEO ha attribuito la debolezza ai minori consumi discrezionali, alla crescente incertezza legata ai dazi, alla bassa fiducia dei consumatori e alle polemiche generate da alcune scelte aziendali. Walmart, meno esposto ai beni non essenziali grazie al peso dell’alimentare, ha registrato risultati più solidi, ma ha comunque segnalato l’impatto imminente dei dazi sui prezzi. Il disagio è diffuso: VF Corp (Timberland) ha lanciato un profit warning legato ai costi doganali, e persino TJX, leader nel retail discount, ha fornito una guidance deludente. Il comparto retail, soprattutto quello legato ai consumi discrezionali, è tra i più penalizzati in Borsa, frenato da margini sotto pressione, consumatori più cauti e un contesto sempre più incerto.
Torniamo a osservare l’andamento del dollaro e del decennale americano, dove il decoupling si fa sempre più evidente: i tassi sui Treasury hanno ripreso a salire, mentre la valuta statunitense si è mossa nella direzione opposta. Come già evidenziato, l’aumento del deficit e del debito federale sta rendendo i titoli di Stato USA più vulnerabili. La Cina continua a ridurre la propria esposizione, e anche per il Giappone i Treasury risultano meno appetibili. A sorpresa, invece, il Regno Unito ha aumentato gli acquisti, ma sappiamo quanto, in una logica trumpiana, le partecipazioni estere ai governativi possano diventare leva nella politica commerciale. Il calo della domanda estera potrebbe continuare a penalizzare il dollaro, anche se la valuta americana potrebbe trovare sostegno dai flussi in ingresso verso il comparto corporate e azionario. A pesare, nel breve, è anche la posizione speculativa non commerciale. Tuttavia, a un certo punto, il differenziale di tasso nei confronti dell’euro dovrebbe tornare a esercitare un impatto positivo sul biglietto verde.