Il risveglio dei mercati

Michele Morra -

Le performance del primo trimestre del 2018 sono state negative per gran parte delle asset class di riferimento.

Tutti i mercati azionari Usa sono scesi, con l’S&P 500 (-2.09% dall’inizio dell’anno) che, dopo un rally iniziale che lo ha portato a raggiungere 2.872 punti il 26 gennaio (+6.90% in meno di un mese), ha perso il 10.16% a inizio febbraio. I picchi di inizio anno hanno coinvolto anche l’Europa, con l’Euro Stoxx 600 che al 23 gennaio 2018 era ai massimi dal dicembre 2007 (+5.02% da inizio anno), ma che ha poi scontato le vendite, trovandosi al 26 marzo a -5.03% da inizio anno e -9.57% da gennaio.

Nel reparto azionario i mercati emergenti sono gli unici positivi da inizio anno (+2.06%), non solo grazie ai rialzi più marcati nei periodi positivi (+9.89% al 26 gennaio contro il 6.92% dei Paesi sviluppati), ma anche ai ribassi meno accentuati nel sell off di fine marzo (-3.27% contro -3.95%). Questo dato sottolinea bene come la percezione dei provvedimenti sul commercio sia ancora quella di una questione locale tra Cina e Usa, per quanto si possa definire locale il tema del commercio tra le due principali potenze mondiali. In caso di un’escalation ci potrebbero essere conseguenze su questa asset class.

Passando ai tassi di cambio, il Dollar Index ha perso il 2.96%. Il cambio Euro-Dollaro è a +3.66% da inizio anno, nonostante i crolli di inizio febbraio abbiano consacrato il Greenback come moneta rifugio. Anche la sterlina ha galoppato contro il dollaro, chiudendo il trimestre a +4.71%, sia grazie alle dichiarazioni anti inflazionistiche della Bank of England, sia per il raggiungimento dell’accordo preliminare sul periodo di uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea.

Nel mondo obbligazionario, aspettative di rialzi dei tassi, dichiarazioni delle Banche Centrali e aspettative di inflazione crescente, sono state compensate positivamente dai flussi di chi ha ridotto la componente di rischio in portafoglio. I tassi Usa a 10 anni hanno raggiunto i livelli di gennaio 2014 a 2.82% (+circa 40 bps YTD) mentre i tassi a 2 anni hanno continuato il rally iniziato nell’agosto 2011 e sono ora ai massimi dal settembre 2008 a 2.29%. Da analizzare l’inclinazione della curva, che attualmente è ai livelli di inizio anno, ma che ha raggiunto picchi di circa 80 punti base a inizio febbraio. La volatilità dei rendimenti dei Bund è stata molto più contenuta con un movimento da inizio anno di 8 punti base per il decennale e di appena 1 punto base per il tasso a 2 anni.

Passando alle materie prime, degno di nota è il settore energy che vede in testa il petrolio grazie al dato sulle riserve al di sotto delle aspettative, mentre a sottoperformare è il settore metallurgico (oro escluso) che vede l’alluminio perdere il 9.52% da inizio anno, condizionato dalle tariffe imposte da Trump.

Infine lato credito, l’elevata volatilità ha permesso al comparto Investment Grade (-0.04% ytd) di sovraperformare il comparto HY che è a -2.53% YTD.

Il risveglio dei mercati

Il primo trimestre dell’anno è stato caratterizzato da un aumento generale della volatilità. L’anno è iniziato con i fuochi d’artificio, sull’onda della riforma fiscale di Trump. Poi i mercati si sono mossi come di scatto e hanno continuato a vibrare per tutto il mese di marzo sull’onda delle varie crisi internazionali.

Come l’acqua in un secchio ormai colmo all’orlo, i tanti fattori di rischio hanno cominciato a traboccare ai margini. Non rovesciandosi, ma a veloci sprazzi irregolari. In gergo tecnico questo andamento si chiama “volatilità a grappoli”, ossia la persistenza della volatilità nel tempo. Per rendersi conto basta confrontare il numero di variazioni giornaliere dello S&P 500 superiori all’1% in valore assoluto: esse sono state pari a 8 nell’arco di tutto il 2017 e sono salite a 21 nell’arco dei soli primi 3 mesi del 2018 (12 a febbraio e 9 a marzo). L’andamento non è affatto anomalo visti tutti gli avvenimenti, alcuni specifici ad alcune regioni o alcuni settori, altri più strutturali, che hanno animato il trimestre.

Il risveglio del Vix

A colmare la misura è stato il dato sulla crescita degli stipendi Usa, positivo oltre le aspettative. La notizia è stata letta come il segnale di un potenziale risveglio dell’inflazione. Come se fosse stato toccato un nervo scoperto, si sono innestate una serie di reazioni a catena che hanno portato l’indice della volatilità (VIX) a crescere del 200% in poche ore, con ripercussioni negative sui mercati azionari globali. Gli operatori erano sull’attenti e hanno reagito con una velocità senza precedenti (probabilmente in parte a causa delle strategie di algo-trading ormai sempre più diffuse).

Effetto diversificazione

Il mercato era pronto a questa scossa? In molti temevano che la riduzione della correlazione ai massimi livelli tra le asset class avrebbe limitato gli effetti della diversificazione in termini di controllo del rischio. Quando la correlazione aumenta, le varie asset class tendono a muoversi nella stessa direzione, diminuendo i vantaggi di un’allocazione variegata. Tuttavia nel momento in cui il 5 febbraio la componente azionaria ha raggiunto picchi negativi (S&P -4.08%), il “fly to quality effect”, o meglio una maggior domanda di titoli poco rischiosi, ha abbattuto la correlazione tra le asset class fino ai minimi (-97%) e la componente obbligazionaria ha permesso di contenere le perdite dell’azionario.

I dazi di Trump

Dopo il colpo del Vix è tornata la distensione, finché Donald Trump non è salito in cattedra, annunciando una serie di misure commerciali ispirate dal protezionismo. All’inizio la Casa Bianca ha preso il problema alla larga, annunciando dazi del 25% su alluminio e acciaio riguardo le importazioni di varie nazioni. In seguito è diventato evidente il vero obiettivo di Washington: limitare le importazioni dalla Cina, con il quale gli Stati Uniti hanno un deficit commerciale di 375 miliardi di dollari. Così sono arrivati nuovi dazi su importazioni cinesi per un valore di circa 60 miliardi di dollari, insieme alle scontate contromosse della Cina.

Sicuramente è presto per valutare gli effetti economici diretti di questo provvedimento e per parlare di una guerra commerciale, con potenziali ripercussioni sulle prospettive di crescita globale. L’azione di Trump, in politica internazionale, è ispirata alla teoria “realista”. Secondo questa dottrina il fine giustifica i mezzi, ma non bisogna fare l’errore di confondere i mezzi con i fini. A volte la forza si utilizza per costruire uno steccato intorno all’interesse nazionale. Questo può voler dire prospettare il peggio, per poi trovare un punto di incontro con le altre nazioni entro confini più ragionevoli.

Le due principali economie globali sono estremamente interconnesse e questo potrebbe rassicurare, visti i forti disincentivi per una sfida al ribasso. D’altra parte non si può fare a meno di prestare particolare attenzione agli sviluppi della situazione, ricordando che un eventuale ribilanciamento dello squilibrio commerciale – se restasse limitato – potrebbe non avere nel medio termine conseguenze catastrofiche.

I mercati, che non amano il protezionismo e ancora meno amano l’incertezza, hanno comunque reagito in modo nervoso. Si aggiunga a questo il continuo turnover alla Casa Bianca, che non aiuta di certo a dare un’impressione di stabilità. Le ultime sostituzioni sono state quelle di Rex Tillerson con Mike Pompeo (ex CIA director) e poi di H.R. McMaster (National Security Advisor) con John Bolton.

Ad aggiungere un ulteriore elemento di preoccupazione è stata la bufera che si è abbattuta sui titoli tecnologici. Lo scandalo dei dati personali, legato alle attività della società di comunicazione Cambridge Analytica, ha fatto emergere le controversie dei modelli di business di Facebook e di altre aziende del comparto tech. Facebook ha perso il 13.5% in una settimana, trascinando con sé i principali listini dell’equity internazionale.

Dunque, la crescente incertezza ha portato a sconti più elevati degli asset finanziari e ad una conseguente riduzione dei prezzi in un contesto economico e fondamentale che resta comunque solido ma che vede l’effetto di sorpresa economica ridursi progressivamente. Per citare due dati tra tutti gli indicatori, Manifacturing PMI e German ZEW economic sentiment, sebbene siano rimasti positivi, hanno deluso le aspettative sempre crescenti.

Giganti digitali

La grande rivoluzione digitale ha sconvolto la faccia dell’economia moderna e di Wall Street. In meno di 20 anni le cinque grandi aziende che compongono l’indice Faang (la cui presenza in borsa era irrilevante o addirittura inesistente prima del 2004) e Microsoft sono cresciute in modo esponenziale, impennandosi negli anni ’10. La capitalizzazione di questi mega gruppi ha superato molto più del debito pubblico italiano. Attraverso una performance negli anni sempre superiore all’indice di riferimento, questi sei giganti da soli oggi valgono il 16% della capitalizzazione dello S&P 500.
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Il peso della bilancia

A partire dagli anni ’80 il deficit commerciale Usa ha cominciato a scavare un solco verso il basso, fino a sfondare la cifra astronomica di 845 miliardi all’anno. Le nuove misure prese da Trump riguardano quindi una parte assolutamente minoritaria delle importazioni totali degli Stati Uniti, che ammontano a 2300 miliardi di Dollari, di cui oltre 500 solo con la Cina.
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Michele Morra – Portfolio Manager – Moneyfarm