Investimenti sostenibili, una moda da millennial?

Masja Zandbergen -

Spesso si pensa che gli investimenti sostenibili interessino solo i millennial, e che si tratti di una moda del momento. È vero che questa fascia di età sembra essere quella più interessata agli investimenti sostenibili, ma non si tratta certo di una moda. In realtà, l’attenzione verso la sostenibilità attraversa tutte le generazioni e vanta una storia secolare.

Sicuramente i nati dalla metà degli anni ’80 in poi, secondo quanto emerge dalle ricerche, sono i più interessati a questi temi. Sono più propensi a comprare alimenti biologici o caffè del commercio solidale e a preoccuparsi dei diritti umani di quanto lo fossero i loro genitori o nonni. Inoltre, essendo cresciuti nell’era di Internet, hanno avuto più facilmente accesso a informazioni che hanno portato alla luce le attività non sostenibili, e in base a queste hanno fatto delle scelte.

Tuttavia, stando a un sondaggio realizzato nel 2017 da Robeco sulle preferenze dei propri investitori retail in Olanda, la domanda di sostenibilità è distribuita piuttosto equamente tra tutte le fasce di età. Il 70% circa degli ultracinquantenni si è dichiarato decisamente interessato alla sostenibilità, a fronte del 66% del gruppo 34-50 anni e al 67% del gruppo 18-34 anni. Pur non essendo uno studio scientifico esaustivo, il sondaggio ha effettivamente dimostrato che la sostenibilità è popolare tra le persone di mezza età e oltre tanto quanto lo è tra i millennial.

Si ottiene un risultato simile anche se si guarda a chi effettivamente investe in fondi sostenibili – il 28% degli over 50, il 29% del gruppo 34-50 anni e il 26% del gruppo 18-34 anni – e la quota di portafoglio media investita in fondi sostenibili, pari al 29% per gli over 50, al 30% per il gruppo 34-50 anni e al 33% per il gruppo 18-34 anni.

Per comprendere come la sostenibilità sia tutt’altro che una moda del momento basta ripercorrerne la storia. Le sue origini risalgono alla chiesa del secolo XVIII, quando i quaccheri alzarono le prime barriere rifiutandosi di investire in tutto ciò che fosse collegato con la tratta degli schiavi. In anni più recenti la tendenza andò crescendo con le prime leggi sull’uguaglianza dei diritti negli anni ’60 e le campagne ambientali degli anni ’70. Un ‘boicottaggio’ importante fu quello messo in atto negli anni ’70 dalle aziende che si rifiutavano di investire in Sudafrica a causa del regime di apartheid in atto in quel Paese.

L’interesse per la sostenibilità è diventato globale nel 1987, con la pubblicazione da parte della Commissione delle Nazioni Unite su Ambiente e Sviluppo (Commissione Brundtland) del rapporto “Our Common Future” in cui si denunciava lo sfruttamento incontrollato delle risorse naturali, all’epoca rappresentato soprattutto dalla vasta deforestazione. Il documento è importante in particolare per aver coniato il termine “sviluppo sostenibile”, mirato soprattutto a invitare i mercati emergenti a perseguire la propria crescita economica senza distruggere l’ambiente. Per spiegare il significato del nuovo termine, il presidente della Commissione Gro Harlem Brundtland scrisse: “L’umanità può fare in modo che lo sviluppo sia sostenibile, ossia in grado di soddisfare i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri”.

Un’altra frase famosa, nota come “triple bottom line”, è quella coniata nel 1995 non da un millennial, ma da un uomo d’affari britannico di mezza età, John Elkington, il quale affermò che qualsiasi azienda debba considerare tre P: Persone, Pianeta e Profitti (e non solo quest’ultima parola) come ugualmente importanti per il proprio successo nel lungo termine. Tramite successivi adattamenti, questo concetto si è tradotto nei tre fattori ESG (ambientale, sociale e di governance) che sono oggi alla base della maggior parte dei processi di investimento sostenibile. Il concetto e la tematica di ‘sustainability investing’ sono poi diventati di uso comune nel decennio successivo, quando hanno cominciato a essere presi sul serio dagli investitori.

La vera e propria globalizzazione della sostenibilità ha probabilmente raggiunto il suo apice con la Conferenza delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici tenutasi nel 2015 a Parigi (nota come COP21) e dalla quale è scaturito l’Accordo di Parigi, che ha chiesto al mondo di limitare l’incremento del riscaldamento globale a meno di due gradi centigradi rispetto ai livelli preindustriali. L’accordo è stato ratificato da 174 Paesi il 22 aprile 2016, data oggi designata dall’ONU come “Giornata Mondiale della Terra”.


Masja Zandbergen – Responsabile dell’integrazione ESG – Robeco