L’enigma dell’occupazione: perché non c’è inflazione?

Mark Burgess -

Dopo anni di stimoli monetari, tassi di interesse prossimi allo zero e quantitative easing, l’economia globale si trova ora in una fase di crescita sostenuta e sincronizzata.

Finalmente, a circa 10 anni di distanza dalla crisi finanziaria mondiale, dopo quella immobiliare negli Stati Uniti e valutaria nell’Eurozona, e dopo un periodo difficile per il sistema finanziario, è in corso quasi ovunque una forte ripresa economica che, stando agli indicatori anticipatori, pare destinata a proseguire nel medio termine. Inoltre, il presidente Trump ha preso la decisione alquanto sorprendente (data l’attuale fase del ciclo economico) di adottare nuovi stimoli fiscali per l’economia USA, alimentando quello che sembra un fuoco già abbastanza vivace.

I mercati sono stati sostenuti da molteplici fattori, in particolare tassi di interesse quasi nulli e rendimenti ridotti dei titoli di Stato, ma i fondamentali economici e aziendali si stanno progressivamente imponendo come motore dei mercati azionari e obbligazionari. Tuttavia, nell’attuale contesto di crescita, tutti gli occhi sono puntati sulle prospettive inflazionistiche e sulla conseguente reazione delle banche centrali. Ora che la Fed statunitense sta alzando i tassi, i mercati sono potenzialmente ben equilibrati e un deciso aumento dei tassi nonché dei rendimenti obbligazionari in risposta a uno shock inflazionistico rischia di mettere sotto pressione le valutazioni di mercato come non accadeva da diverso tempo. A breve termine, pertanto, l’attenzione deve essere puntata sull’inflazione, sui fattori che la generano e sui possibili sviluppi.

A parità di condizioni, è prevedibile che la crescita salariale sarà il principale motore dell’inflazione, ma è altresì probabile che una molteplicità di forze disinflazionistiche strutturali abbiano la meglio sull’impatto dell’attività economica nel breve-medio termine, attenuando così l’inflazione. Pertanto, le nostre previsioni indicano una positiva stabilizzazione dell’inflazione al 2% negli Stati Uniti e intorno all’1,5% nell’Eurozona nel 2018, dovuta in parte ai citati fattori disinflazionistici, che sono vari e molteplici. È importante notare come tali fattori stiano continuando ad avere un effetto significativo sull’occupazione e sulla crescita dei salari, al punto da mettere in crisi la validità del modello economico della curva di Phillips.

La curva di Phillips

La curva di Phillips, utilizzata dalle banche centrali, descrive la relazione inversa che intercorre tra il tasso di disoccupazione e l’indice dei prezzi al consumo, sulla base della semplice regola secondo cui minore è il tasso di disoccupazione, maggiore è l’inflazione, in quanto il potere negoziale dei lavoratori aumenta al diminuire dell’offerta di lavoro. Questo modello si è dimostrato valido dal periodo anteguerra fino alla fine degli anni Sessanta, ma si è incrinato negli anni Settanta, quando, in parte a causa degli shock petroliferi, l’alto tasso di disoccupazione è andato di pari passo con l’inflazione. Nel decennio successivo, si è assistito a un progressivo appiattimento della curva e ora ci troviamo in una fase protratta di bassa inflazione e bassissimi livelli di disoccupazione. E la crescita salariale si è arrestata.

Threadneedle l enigma dell occupazione perche non c e inflazione 1

Qualcuno potrebbe argomentare che la curva di Phillips sia un modo ipersemplicistico di spiegare come si producono gli aumenti salariali, mentre uno dei fattori che può essere stato sottostimato in questo modello è l’importanza delle previsioni sull’inflazione. C’è chi sostiene che, dopo un periodo così prolungato d’inflazione estremamente bassa, le aspettative dei lavoratori nella fase di negoziazione dei salari si siano ridotte. Lo abbiamo visto in Germania, dove, nonostante la notevole contrazione del mercato del lavoro, le richieste salariali sono state inferiori alle attese. Dopo un lungo periodo di bassa inflazione, questo aspetto ora è stato probabilmente integrato nelle previsioni.

L’arresto degli aumenti salariali nel settore pubblico è un altro fattore da considerare, specialmente in Europa, dove, dalla crisi in poi, ci saremmo aspettati decisi interventi sul bilancio in risposta alla crescita modesta, ma di fatto la tendenza è stata piuttosto nella direzione opposta con un periodo post-crisi caratterizzato da austerità e vincoli al bilancio, che ha messo un freno agli aumenti salariali del settore pubblico. Questa tendenza si è estesa anche al settore privato.

Sottoccupazione

Il grado di sottoccupazione nell’economia è elevato, come illustra la Figura 2, che mostra il livello di occupazione nell’area euro e le ore lavorate dalla crisi in poi: se l’occupazione ha registrato una forte ripresa, il numero delle ore lavorate non è mai riuscito a risalire ai livelli pre-crisi.

Threadneedle l enigma dell occupazione perche non c e inflazione 2

Questo è in parte il risultato dell’aumento del lavoro part-time e dei contratti flessibili, nonché delle riforme del mercato del lavoro a livello europeo, che hanno reso più semplice per le aziende l’adozione di forme di lavoro flessibile. Sia in Europa che negli Stati Uniti, si registra una tendenza crescente al lavoro part-time involontario, mentre in Giappone è aumentata la quota di occupati con contratto di lavoro atipico rispetto al periodo pre-crisi e, parallelamente, è cresciuto il grado di partecipazione femminile alla forza lavoro. La maggiore flessibilità dei mercati del lavoro ha comportato una generale diminuzione delle retribuzioni e delle garanzie per i lavoratori: chiaramente, è meno probabile che il lavoratore part-time chieda un aumento di stipendio perché si trova in una posizione più precaria.

Si verifica anche un comprensibile fenomeno economico per cui, nel periodo post-crisi, le aziende assumono meno lavoratori a tempo pieno perché vi è una maggiore incertezza sul futuro. Negli Stati Uniti, in particolare, il tasso di partecipazione è crollato dopo il 2008-09 poiché le competenze dei lavoratori rimasti disoccupati non erano più oggetto di richiesta mentre i settori in cui lavoravano hanno subito un drastico ridimensionamento. Questo significa che la quota di popolazione inattiva da oltre un anno è cresciuta rispetto al tasso di disoccupazione.

Con una partecipazione così bassa, l’offerta potenziale di lavoro può rispondere a un aumento della domanda di forza lavoro e indebolire le richieste salariali di chi già lavora. Non è da escludere che questo circolo vizioso possa essersi già verificato e che sia il motivo per cui i livelli retributivi dell’area euro non sono cresciuti. La retribuzione media di un lavoratore dipendente nel Regno Unito, ad esempio, può aver subito un aumento marginale nelle ultime settimane, ma resta ancora al di sotto del picco pre-crisi pari a 473 sterline settimanali a marzo 2008.

Globalizzazione

Quando venne formulata la curva di Phillips, alla fine degli anni Cinquanta, il mercato del lavoro era una realtà quasi esclusivamente nazionale, mentre negli ultimi decenni le economie dei mercati sviluppati hanno iniziato ad attingere la forza lavoro da un bacino decisamente più ampio e internazionale. La globalizzazione ha consentito alle aziende di reperire manodopera a basso costo in tutto il mondo, consentendo loro di aumentare i margini di profitto grazie a risparmi in termini di efficienza.

È importante notare che il mercato obbligazionario rialzista degli ultimi decenni è un sottoprodotto della globalizzazione e che l’aumento della forza lavoro mondiale ha svolto un ruolo chiave nel creare un contesto disinflazionistico, il quale ha determinato a sua volta il calo dei tassi d’interesse reali neutrali, il crollo del costo del lavoro e il ribasso dei rendimenti obbligazionari.

Chiaramente, i lavoratori delle economie emergenti hanno beneficiato di questa tendenza. Solo in Cina milioni di persone sono uscite dalla povertà: tra il 1990 e il 2000 il reddito cinese pro capite è quintuplicato, passando da USD 200 a USD 1.000, e così anche tra il 2000 e il 2010, dove è passato da USD 1.000 a USD 5.000.

L’automazione

Non vi è alcun dubbio che la tecnologia e l’innovazione migliorino la vita delle persone. Che si tratti di semplificare e velocizzare le mansioni quotidiane, lasciandoci più tempo per gli amici e la famiglia, o di migliorare la sanità, i benefici sono evidenti. Possiamo ordinare beni e servizi da dispositivi mobili, il pianeta è alimentato sempre di più da impianti a energia solare ed eolica e il mondo non è mai stato così connesso. Tuttavia, di pari passo con la tecnologia, cresce anche la paura che “l’automazione” stia avendo un impatto negativo sull’occupazione poiché i robot sottraggono lavoro retribuito alle persone.
Questi timori non sono infondati.
Secondo una ricerca condotta da Deloitte e dal think tank Reform a ottobre 2016, entro il 2030, potrebbero andare persi 861.000 posti di lavoro nel settore pubblico britannico a causa dell’automazione, con un risparmio pari a 17 miliardi di sterline all’anno sugli stipendi dei dipendenti pubblici rispetto al 2015. A settembre 2013, uno studio di Carl Benedikt Frey e Michael A. Osborne per l’Università di Oxford ha esaminato 702 occupazioni negli Stati Uniti, utilizzando un metodo unico per capire quali lavori saranno più minacciati dalla “computerizzazione”. Gli autori hanno scoperto che il 47% del totale degli occupati statunitensi è a rischio, in particolare chi svolge alcuni lavori come operatore di telemarketing, sottoscrittore assicurativo, riparatore di orologi, assistente bibliotecario, funzionario addetto ai prestiti e analista del credito.

Fino ad ora, dall’automazione è probabilmente derivato un aumento dell’occupazione, poiché il totale dell’attività derivante dall’automazione è stata sufficiente a determinare una crescita positiva netta di posti di lavoro, ma senza avere finora generato produttività o crescita salariale. Perché? Per soddisfare la domanda di lavoro, la manodopera costituita dal cosiddetto “esercito dei robot” viene semplicemente aggiunta all’offerta potenziale di lavoro esistente, di conseguenza le aziende sono ora nella posizione di scegliere se concedere o meno aumenti salariali. La situazione può cambiare, ma non a breve termine.

Inoltre, la produttività, benché lenta in generale, è aumentata soprattutto nei settori dove non vi è un’occupazione intensiva, come la tecnologia e l’informatica, che sono i veri campioni di produttività. Viceversa, nelle aree che richiedono un maggior numero di addetti, come l’igiene personale, il settore manifatturiero, i servizi, il tempo libero e la ristorazione, la crescita salariale è stata più bassa. Questo ha inoltre favorito la marginalizzazione del lavoro: la creazione di occupazione nel settore tecnologico, ad esempio, avviene raramente nel settore stesso, ma piuttosto nei ruoli da “economia del precariato” e nei contratti a orario ridotto. È il lavoro che si vende non a ora o a settimana o a mese, bensì a singola prestazione e questo è chiaramente uno sviluppo meno favorevole per il lavoratore e più positivo per il capitale. In ultima analisi, questo significa che gli aumenti salariali si verificano principalmente ai livelli più alti, mentre il divario di competenze comporta una mobilità sempre più diffusa dai lavori meno pagati a quelli più pagati. Questa situazione può cambiare nel corso del tempo perché i nativi digitali diventano una parte crescente dell’economia, ma, di nuovo, è improbabile che ciò avvenga a breve termine.


Mark Burgess – Vice CIO Globale e CIO EMEA – Columbia Threadneedle Investments