Niente di nuovo sotto il sole della globalizzazione

Lucy O’Carrol -

Sul fronte geopolitico non c’è nulla di nuovo: la geografia, sia fisica che umana, influenza la politica e le relazioni internazionali da secoli, se non da millenni. È invece la natura dei rischi geopolitici a essere cambiata nel tempo.

Durante la Guerra fredda i principali rischi geopolitici che si trovavano ad affrontare governi e società occidentali ruotavano intorno ai comportamenti di Mosca, alla possibile espropriazione di beni da parte di regimi nemici o alle tensioni in Medio Oriente che facevano schizzare i prezzi del petrolio. In tempi più recenti, a questi rischi si sono aggiunti cambiamento climatico, terrorismo internazionale, flussi migratori senza precedenti e il populismo. La Russia appare sempre più determinata, mentre gli Stati Uniti stanno diventando imprevedibili e la Cina è proiettata verso il futuro. Non deve sorprendere dunque che il Segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, abbia dichiarato che ci troviamo in un mondo più pericoloso rispetto all’ultima generazione. Certamente il quadro è più complesso.

Se si guarda al passato, intorno al 1820, il Giappone, la Cina, l’India e il resto dell’Asia orientale contribuivano per oltre la metà del PIL globale e per circa il 60% della produzione industriale mondiale. Nel 1875 la percentuale della loro produzione industriale rispetto a quella globale era scesa al di sotto del 20%, mentre il Regno Unito muoveva più di un terzo delle esportazioni manifatturiere del mondo. I profondi cambiamenti a livello di potere economico che hanno caratterizzato la prima ondata di globalizzazione sono stati trainati dall’innovazione industriale e dal crollo dei costi dei trasporti, che hanno portato alla prima rivoluzione industriale.

I rischi geopolitici che stiamo affrontando in questo momento affondano verosimilmente le loro radici nella seconda ondata di globalizzazione, dovuta in parte al crollo dei costi delle comunicazioni e all’innovazione digitale. La caduta del muro di Berlino e l’ascesa della Cina hanno avuto parte in tutto questo, con la progressiva liberalizzazione del sistema commerciale globale. Tali sviluppi hanno aperto i mercati del lavoro e dei beni di consumo. Hanno anche ridotto drasticamente il costo per la diffusione e la condivisione delle informazioni, creando la possibilità di delocalizzare le attività e di gestire catene di distribuzione lunghe e complesse.
Il governatore della Banca d’Inghilterra, Mark Carney, ha sottolineato che questo processo ha raddoppiato la forza lavoro attiva su scala globale, mentre oltre un miliardo di persone è stato sottratto alla povertà e gli standard di vita mondiali sono cresciuti moltissimo. I vantaggi del libero scambio sono stati però ripartiti in modo iniquo tra individui e regioni nel corso del tempo. Le nuove tecnologie hanno inciso sul reddito nazionale e globale e reso più evidenti le disparità in termini di ricchezza, alimentando l’immigrazione, il protezionismo e il populismo.

Nonostante tali sviluppi, i mercati finanziari hanno continuato a essere piuttosto ottimisti negli ultimi anni. Un fenomeno non insolito: a partire dalla Seconda guerra mondiale gli eventi critici che si sono verificati, dalla crisi dei missili cubani fino al conflitto di Crimea del 2014, hanno provocato mediamente una contrazione del 3,5% dell’indice S&P 500, che in genere si è riportato sui livelli precedenti alla crisi entro una media di cinque giorni. Forse gli operatori del mercato guardano semplicemente oltre gli eventi a breve termine, concentrandosi piuttosto sui fondamentali economici e sul contesto istituzionale.

Per ora tutto bene, ma le condizioni economiche non resteranno favorevoli per sempre. Le banche centrali hanno meno armi a loro disposizione, se non altro tra quelle già testate, in vista della prossima crisi. Le istituzioni internazionali (G7, G20, WTO, Nato) sono in difficoltà. Le crisi energetiche forse non si trasmettono con la stessa pericolosità degli anni ’70 e ’80, dato che oggi il mondo dipende in misura minore dal petrolio. Tuttavia, sono subentrati altri meccanismi di trasmissione, quali l’interruzione delle rotte commerciali o delle catene di distribuzione e l’economia digitale.

Questi nuovi trend geopolitici non sono solo un’invenzione della crisi finanziaria globale, pertanto non scompariranno tanto presto. Ci si può aspettare di assistere a un continuo spostamento del focus economico verso la Cina, e l’Asia in generale; a un crescente protezionismo e a un allentamento fiscale causati delle pressioni populiste; a un aumento della “visibilità” globale grazie agli sviluppi dell’economia digitale; a un riesame dei collegamenti tra economia e sicurezza nazionale che porterà ad accorciare le catene di distribuzione, in particolare quella tecnologica.

La maggiore complessità e la visibilità digitale richiedono una ricerca scrupolosa e solide conoscenze e partnership locali. La comprensione della realtà locale abbinata a competenze globali riduce i rischi derivanti da catene di distribuzione troppo lunghe e contiene i danni normativi e reputazionali. Tali rischi creano anche delle opportunità che gli investitori attivi, con forti conoscenze regionali, sono in grado di sfruttare.


Lucy O’Carrol – Chief Economist – Aberdeen Standard Investments