Il peggio è alle spalle?

-

Con il progressivo ammorbidimento delle misure di lockdown in varie regioni del mondo, Europa in primis, e viste anche le massicce misure di stimolo fiscale e monetario attuate con tempestività da governi e banche centrali, pare lecito domandarsi se dal punto di vista economico il peggio possa essere considerato ormai superato.

A sentire il Fondo Monetario Internazionale (International Monetary Fund, IMF), sembrerebbe proprio di no. Nelle ultime previsioni del 24 giugno, infatti, l’IMF ha dipinto uno scenario poco incoraggiante e decisamente peggiorativo rispetto al World Economic Outlook precedente, risalente ad aprile.

L’istituto si aspetta una contrazione dell’economia globale pari al -4,9% nel 2020 (-3% ad aprile) a fronte di un rimbalzo del +5,4% (+5,8%) nel 2021 (il World Economic Outlook dell’IMF è disponibile qui). Tra gli elementi più interessanti, l’analisi mostra un percorso evidentemente dicotomico tra i Paesi sviluppati e quelli emergenti: se per i secondi, infatti, la crisi da Coronavirus sembrerebbe una pausa di riflessione all’interno del trend  secolare di forte crescita (-3,0% nel 2020 e +5,9% nel 2021), per i primi invece il Fondo Monetario Internazionale sembra ipotizzare maggiori danni strutturali alle economie, mettendo in discussione lo scenario consensuale di recupero a “V” quantomeno sull’entità della ripresa, che nelle stime IMF è ben inferiore alla caduta (-8,0% nel 2020 e +4,8% nel 2021). Una possibile spiegazione del diverso trattamento riservato ai Paesi emergenti e a quelli sviluppati risiede nella maggiore incidenza sulle economie di questi ultimi del settore dei servizi, sicuramente il più colpito dalla pandemia e quello con la ripresa più lenta (ristoranti, alberghi, turismo, centri sportivi e via dicendo). La produzione agricola e industriale, preponderante nelle aree in via di sviluppo, se non si perde capacità produttiva, sembra infatti riuscire a navigare più agevolmente nelle acque torbide della pandemia, come mostrato dai dati degli apripista cinesi. Eppure le previsioni dell’IMF arrivano in un momento in cui l’attività dei servizi nelle principali economie sta progressivamente ritornando sui livelli pre-crisi, di pari passo con il graduale allentamento delle misure di distanziamento sociale. In alcuni Paesi, come la Germania, dove il lockdown è stato più morbido rispetto agli Stati del Sud Europa, l’attività giornaliera nei servizi ha addirittura colmato totalmente il gap formatosi nei mesi della fase più acuta della pandemia.

Non solo, a livello globale nelle ultime settimane i dati macroeconomici, dopo i mesi bui di marzo e aprile, hanno iniziato a mostrare una dinamica di decisa risalita. Si pensi per esempio ai sorprendenti dati sul mercato del lavoro statunitense di maggio o alle ultime letture relative ai PMI, importanti indicatori anticipatori dell’attività economica. Il che ci induce ad avere un atteggiamento nel complesso più ottimista rispetto al Fondo Monetario Internazionale: le nostre proiezioni prevedono una recessione del PIL mondiale del -3,8% nel 2020 e una ripresa stentorea della crescita nel 2021, +6,7%. E, per quanto pure secondo la nostra visione il rimbalzo sarà più deciso nelle economie emergenti, ci attendiamo una dinamica per larghi tratti a “V” anche nel mondo sviluppato.

Ciò che appare al di fuori di ogni dubbio è che il percorso per uscire dalla crisi sarà pieno di insidie. L’elevata dispersione osservata nelle previsioni economiche ne è una dimostrazione.

In assenza di notizie positive sul fronte della ricerca medica, cure o vaccini che siano, in una crisi scaturita da un’emergenza sanitaria è normale che l’incognita più grande riguardi l’efficacia delle misure di contenimento della diffusione del virus. Ad oggi, il modello cinese, in parte replicato nel resto dell’Asia e in Europa, sembra vincente (la settimana scorsa sono bastate poche centinaia di casi per catapultare di nuovo Pechino, una megalopoli da oltre 20 milioni di abitanti, in pieno lockdown).

Desta maggiore preoccupazione, invece, la linea adottata dai Paesi anglosassoni, più blanda e che potrebbe far aumentare il rischio di nuovi focolai. Un fattore che potrebbe inficiare in modo significativo la rischio e comportare strascichi più lunghi e pesanti per le economie di questi Paesi, soprattutto nel settore dei servizi, come detto il più esposto agli effetti negativi del distanziamento sociale.

In particolare, difficilmente verranno presi come esempio positivo gli Stati Uniti, dove nella gestione della pandemia è stata consentita una vasta disomogeneità tra Stati, viziata anche da questioni politiche: gli Stati repubblicani, infatti, hanno adottato un approccio generalmente meno rigido nel tentativo di danneggiare il meno possibile l’economia alla vigilia delle elezioni presidenziali.

Proprio le elezioni americane, in cui Trump continua a perdere consenso in favore del candidato democratico Joe Biden, rappresentano un ulteriore grande scoglio per il futuro prossimo. Ad oggi, lo scenario più probabile è quello della cosiddetta “blue sweep”, ossia della combinazione di Presidente e Congresso entrambi democratici (il blu è il colore del Partito Democratico, contrapposto al rosso repubblicano). Qualora si concretizzasse, tale eventualità comporterebbe una notevole revisione del paradigma di Trump, sia dal punto di vista della politica interna sia della politica estera. La riforma fiscale del 2018, con il taglio delle tasse alle imprese e ai ceti medio-alti, sarà verosimilmente cancellata a favore di maggiori investimenti in infrastrutture e del completamento della riforma sanitaria, il Medicare di Obama. In particolare, quella di maggiori tasse per le aziende è una prospettiva che, combinata con una maggiore regolamentazione dei settori finanziario, farmaceutico ed energetico, potrebbe essere mal digerita dai mercati. Oltre a questo, è lecito attendersi un atteggiamento meno ostile nei confronti delle organizzazioni internazionali (WTO, ONU, etc.).

Tutto questo può giustificare dal punto di vista degli investimenti una maggiore attenzione ai listini emergenti e a quelli europei. A tal proposito, il Vecchio Continente, infatti, oltre ad aver mostrato una gestione più ordinata e rigorosa della pandemia che ha fatto sì che oggi l’attività economica stia riprendendo vigore, presenta in questo momento, caso più unico che raro, una maggiore stabilità politica. Anzi, con l’attesa approvazione del nuovo Recovery Fund o Next Generation EU (il prossimo appuntamento per le negoziazioni sarà il 17/18 luglio) si appresta a compiere un passo epocale verso una sempre più forte integrazione.

In aggiunta, considerato che con ogni probabilità ci vorrà del tempo prima che le risorse di tale piano vengano erogate, nel frattempo l’intervento della BCE e il resto delle manovre comunitarie (SURE, BEI e MES) forniranno una sorta di prestito-ponte per gli Stati della regione, nella massima salvaguardia possibile dei bilanci pubblici.

In un contesto in cui, ma questo è un discorso che vale per gran parte del mondo sviluppato, l’ingente liquidità immessa tramite la politica economica si sta trasmettendo efficacemente e con un effetto moltiplicativo all’economia reale. Nelle ultime settimane, stiamo assistendo di fatto a un’espansione senza frizioni della liquidità totale dell’apparato economico e finanziario, in misura tale da scongiurare per il momento il rischio di un credit crunch, o stretta creditizia. Un fattore che differenzia notevolmente la situazione attuale da quella vissuta nel 2008/2009: all’epoca, trattandosi di una crisi di origine prettamente finanziaria, la liquidità immessa non si trasmetteva infatti all’economia reale, ma restava all’interno del sistema finanziario, per compensare la liquidità distrutta dal settore privato (deleverage).

Inoltre, come abbiamo sottolineato più volte nel corso degli ultimi mesi, con il loro intervento massiccio le banche centrali mantengono i tassi nominali stabilmente bassi (il Treasury decennale presenta un rendimento nominale dello 0,7% circa). Di conseguenza, qualora le aspettative di inflazione dovessero continuare nel recente trend di risalita, questo potrebbe comportare un’ulteriore discesa dei tassi reali, già in territorio abbondantemente negativo (-0,7%), un importante fattore stabilizzatore per economia e mercati.

Restando negli USA, un elemento che potrebbe contribuire a sostenere le aspettative di inflazione è il fatto che il reddito disponibile negli ultimi mesi, nonostante la crisi, è aumentato grazie ai trasferimenti pubblici, per cui eventuali danni strutturali alla produzione, seppur contenuti, potrebbero far risalire i prezzi al consumo e quindi deprimere ulteriormente i tassi reali (per inciso, in Cina si osserva la dinamica opposta, con produzione industriale ripartita in modo deciso e domanda ancora debole, il che esclude per il momento la possibilità di spinte inflattive). Nel complesso, quindi, nel marasma di variabili di natura medica, economica e finanziaria di difficile lettura, come spesso abbiamo ribadito negli ultimi mesi, una delle poche certezze resta il sostegno della politica economica, che nell’emergenza attuale ha dispiegato le proprie forze con una potenza e una proattività mai sperimentate in passato.

Per il resto, per capire effettivamente se il recupero sarà a “V” o meno, occorrerà monitorare da vicino l’evoluzione della situazione sanitaria.